GIUSEPPE MAROTTA AD INTER

di MARIO PICCIRILLO

ROMA – C’erano Marotta, Bobo Maroni e Attilio Fontana, quello delle mascherine al contrario. Non è una barzelletta ma tre undicesimi d’una stessa squadra giovanile. Era solo un gioco, il pallone. Sarebbe diventato il suo gioco. Da oggi anche l’Inter ha un Cavaliere per presidente: Beppe Marotta, il dirigente del calcio italiano, ordinato al Merito della Repubblica, varesino con ambizioni politiche mai sopite. “Il mio sogno nel cassetto è di entrare in politica da tecnico, senza tessera di partito, per offrire il mio apporto in termini di competenza ed esperienza”, disse al Corriere della Sera. Farebbe il ministro, per ora s’è fermato alla presidenza della squadra campione d’Italia. Tappa d’un viaggio tortuoso da abilissimo uomo-ovunque del pallone. Il mercato ai suoi piedi, un tessitore di fili, animatore di carriere. Ai tempi della Sampdoria lo chiamavano il Kissinger del calcio italiano.

Leggenda narra che il piccolo Beppe all’età di otto anni bussò allo stadio del Varese, e si mise alle costole del custode. Fu la porta d’ingresso di una vita che gli ha portato scudetti, titoli, riconoscimenti. Tre finali di Champions in otto anni. Altri otto anni alla Samp, lasciata al quarto posto, preliminari di Champions. Altri otto ancora alla Juventus, chiamato da Andrea Agnelli per rifondare. Sette scudetti, tutti tranne il primo. Addio nel 2018, per un Cristiano Ronaldo di troppo. Operazione malsana, lo fece presente, piantò i piedi, se ne andò a tenere le briglie di cassaforti avversarie, mentre il futuro giudiziario bianconero gli avrebbe poi dato ragione, tra processi, inchieste per ndrangheta, dirigenti radiati, plusvalenze e bilanci in rosso fisso.

Marotta sarebbe stato un perfetto uomo da pentapartito. Ha navigato le acque agitate d’un mondo sedicente industriale, in mano per lo più a mercanti di giro. Varese, poi Monza, Como e Ravenna, ha lavorato per Zamparini al Venezia (portando in dote Recoba) e poi per l’Atalanta. Ma ha legato il suo nome agli “affari”. In ordine sparso: Andrea Pirlo a parametro zero dal Milan, Andrea Barzagli ripescato nel limbo di Wolfsburg, Vidal, Tevez e Pogba. A Ravenna svezzò Christian Vieri. Alla Sampdoria, con una abile operazione di riciclo, riprese Antonio Cassano da Madrid. Andò via – racconta Cassano – quando il giocatore impose l’aut aut, o lui o me.

Poi ci sono anche gli “sfondoni”, è chiaro: Anelka e Bendtner, El Malaka Martinez ed Eljero Elia, la cessione di Coman o Delneri primo allenatore della Juve di Agnelli. Però Marotta è anche la sponda dirigente di Antonio Conte, la parte morbida del tremendismo che avrebbe governato e vinto alla Juve e poi all’Inter (“per Conte sacrificai Spalletti”). E’ lui che gestisce il caso Icardi. E’ lui che vende Lukaku e Hakimi, per galleggiare nella crisi pandemica. E’ lui che ingaggia Simone Inzaghi. C’è lui, sempre lui, dietro le trame che hanno costruito il calcio italiano di oggi.

Dal triplete dell’Inter, annus domini 2010, l’Italia ha raggiunto la finale di Champions solo per tre volte, e tutte e tutte e tre le volte, dietro, nel backstage, c’era a muovere i fili Beppe Marotta. Il puparo. Il Cavaliere non più oscuro dell’Inter. Il Presidente, da oggi.