Un piccolo viandante triste vaga per il Mondiale, prigioniero di un incantesimo maligno. È un viandante solitario. Non ha più amici, non ha più gloria. La sua compagna è la solitudine. Il suo cuore è una pietra fredda nel petto. Abbandonato dagli dei, ha il passo stanco di un vecchio deluso. La sua barba è triste, i suoi occhi sono tristi. Sul prato dello stadio di Novgorod ha lasciato impronte leggere. Nessuno si è accorto di lui che si è arreso a una partita mai giocata, spettatore malinconico della disfatta argentina. Nell’aria risuonano le note di “Mi noche triste” di Carlos Gardel e Patty Pravo canta da qualche parte “Ragazzo triste come me”. Vaga il piccolo viandante, nell’immensa Russia, coperto da un mantello di malinconia. Lionel Messi, il virtuosista, il dribblatore elettrico, il funambolo del gol, il pittore di arcobaleni con palloni magici, il killer gentile di mille portieri, la saetta umana capace di correre a 32,5 chilometri l’ora con i suoi passettini brucianti tra avversari evitati come birilli, l’inarrestabile bucaniere delle aree di rigore, il corsaro dei sette mari del calcio, piange senza piangere. Gli mancano le lacrime.
La gioia era la sua compagna, l’emozione mai. Un campione a ciglio asciutto. Il successo non l’ha mai scosso. La sconfitta lo irrigidisce, ma non gli provoca cedimenti, trepidazioni, pianto. È fatto così, Leo. Qualcosa, sempre, lo trattiene. La timidezza, la personalità incompiuta, le stravaganze che non gli appartengono, l’orgoglio che non ha mai sentito, la vanità che non ha mai coltivato. Un ragazzo tranquillo, un campione mai sgargiante. Un fuoriclasse da copertine del football, però mai una autentica vedette, una star che suggerisca mode e atteggiamenti, una primadonna. Un calciatore eccelso, non un divo. Ha vinto tanto senza farsene schiacciare. Nove campionati spagnoli, quattro Champions, cinque volte Pallone d’oro, 643 gol in 818 partite col Barcellona e con tutte le nazionali argentine, miglior cannoniere dell’albiceleste con 64 reti. Un percorso sensazionale senza impettire e lasciarsi andare ad entusiasmi sfrenati. A farne un personaggio finalmente unico sono le sconfitte. La finale mondiale persa contro la Germania quattro anni fa, le due Coppe America cedute al Cile mandando alle stelle un calcio di rigore. Quest’anno poi, il disastro in Champions col Barcellona contro la Roma.
Pure, Lionel ha trascinato l’Argentina in Russia con una prodezza, la tripletta all’Ecuador (3-1) sull’altezza vertiginosa di Quito, in ottobre, ultima chance per la qualificazione a questo Mondiale. Ma il rigore sbagliato a Mosca contro l’Islanda ha riportato la “pulce” al destino avverso in nazionale inchiodando l’Argentina a un mesto esordio con un magro pareggio. L’albiceleste non vince alcun trofeo da ventidue anni, da dodici con Messi in squadra. E ora l’Argentina scombiccherata di Sampaoli, che in questo Mondiale è una nazionale alla deriva, affidata al coraggio disperato di alcuni comprimari, una nazionale incerta e impaurita, con Higuain e Dybala a mezzo servizio, ora l’Argentina con Messi, ma in pratica senza Messi, oscurato dagli islandesi e travolto dai croati, rischia di lasciare il Mondiale a prima botta, cadendo nel girone di qualificazione agli ottavi. Per Messi, all’esordio del Mondiale, un’apparizione modesta contro l’Islanda, però in partita, determinato sui calci di punizione, tirando in porta, tirando fuori. Alla fine, afflitto. Contro la Croazia il crollo. L’assenza dal gioco. Un lancio e niente di più. La sentenza di una sconfitta pesante, agevolata dalla papera iniziale del portiere Caballero. In campo un fantasma. Una barba triste a passeggio per il campo. Un pedone più che un atleta nel match. I ricami del Barcellona sono sconosciuti alla nazionale biancoceleste e Lionel resta a guardare. Nessuna reazione mentre l’Argentina affondava. Perché Messi non è un leader, non trascina, non scuote. Un attaccante supremo, però non una guida, un condottiero, un capitano vero.
Per questo Lionel Messi non sarà mai Maradona pur correndo il doppio e segnando il triplo. Sotto lo sguardo di Diego, a Mosca e a Novgorod, si è “squagliato”. L’esatto contrario dell’eroe Cristiano Ronaldo che tiene su un Portogallo vecchia maniera, che si difende “alla paesana” e vive del carisma, della determinazione, della passione e dei gol del suo campione avendo poco altro. Lionel Messi, il tranquillo ragazzo che le sconfitte invecchiano prima del tempo, non è Maradona e non è Cristiano Ronaldo. Ora, in questo Mondiale, è proprio un viandante triste e solitario.
Di riffe e di raffa va avanti il Brasile di Neymar che è, piuttosto, il Brasile di Coutinho. Sfavilla la Francia di Griezmann. Il Portogallo ha il suo dio in terra. La Spagna avanza con i gol di Diego Costa, brasiliano che ha scelto da quattro anni la cittadinanza iberica. La Russia si fa largo con le reti di Cheryshev. Incanta la Croazia di Modric e gli altri gioielli. Il Belgio di Mertens è una goduria. L’Inghilterra colpisce con Uragano Kane. L’Uruguay di Cavani procede con misura. È in ritardo la Germania. L’Argentina, essa sola tra le “grandi”, ma non avendo più niente di grande, rischia l’eliminazione. La vittoria della Nigeria sull’Islanda (2-0) nella partitaccia di ieri a Volgograd riapre uno spiraglio per la permanenza dei sudamericani in Russia (Croazia 6 punti, Nigeria 3, Argentina e Islanda 1). Ma martedì, a San Pietroburgo, contro la Nigeria, Messi dovrà tornare Messi. Per proseguire il Mondiale, l’Argentina ha un solo risultato utile, la vittoria sugli africani. Un pareggio la manderebbe a casa e la Nigeria volerà negli ottavi.