Hola, artefice magico e messaggero di incantamenti, 58 anni oggi, buon compleanno impagabile giramondo e napoletano per sempre, ragazzo di Villa Fiorito e giocoliere di via Scipione Capece. Hola, meraviglia delle meraviglie, riccioli scugnizzi e magico sinistro che ci hai fatto cantare voglio vivere così col sole in fronte e tu eri il sole splendido splendente ai tempi di Soccavo e di Napoli seconda mamma mia. Ora hai la faccia piena di papà Chitoro e, guarda la combinazione, sei l'allenatore, macché allenatore, piuttosto l'agitatore di sentimenti e di passione dei Dorados di Sinaloa a Culiacàn, in Messico.
I dorados, pibe, quando andavi a pesca sul fiume Paranà, i giorni felici col tuo vecchio e mamma Tota a salutarvi vedendovi partire sul furgoncino verso il fiume. La tua vita è come il rock, oggi qua domani là con la tua libertà. Facciamo fatica a seguirti. Dubai e, improvvisamente, la Bielorussia ed ora il Messico, satellite umano che giri attorno alla terra, da ovest a est, da est a ovest. Pelusa, pibe, mano di Dio, re dei re (meglio ‘e Pelè) del dribbling, re magio del gol, angelo dell'area di rigore e demonio dell'area della vita, splendore di un piede mancino e della miseria di un vizio che hai straordinariamente combattuto e vinto, la tua partita più dura, soffrendo e alla fine alzando le braccia al cielo, la tua vittoria più bella, la sofferenza, gli insulti, le pene, le squalifiche, gli arresti, pagando sempre tutto, in debito con nessuno.
Ode, elogio, epinicio e carme in questo giorno che, 58 anni fa, fu una domenica di ottobre alle 7,05 quando nascesti alla periferia di Buenos Aires, Villa Fiorito alla periferia del mondo, per la meraviglia del pianeta, poi castigato dall'invidia degli dei per avere volato troppo alto, sedotto cuori e portieri, dribblato terzini e regolamenti, aggirato leggi e mediani. Un principe ribelle. Vecchio ragazzo che corri sul mio prato dei ricordi e dell'affetto infinito perché era impossibile non volerti bene, uomo di tutte le virtù e di tutti i peccati, creatura esagerata, grande nella vittoria e nella sconfitta, leale con tutti e sleale con te stesso, cuore puro e impuro, istintivo, generoso, peccatore, impunito e punito. Correvi sul campo con le ali di Mercurio, ragazzo che hai voluto volare sul mondo con le ali di Icaro, fragili, disciolte e bruciate dal fuoco di una seduzione artificiale e di un'illusione traditrice.
Villa Fiorito, alla periferia di Buenos Aires, era una bidonville di case di fango, mattoni e lamiera, coi binari sulla scarpata della ferrovia. Ricordi di quegli anni tra le vie Azamor e Mario Bravo, bimbo magrolino con le gambe robuste, e un caschetto di capelli neri, gli stadi del mondo lontani e le domeniche di pesca sul fiume seguendo papà Chitoro che aveva fatto il barcaiolo e sapeva prendere all'amo i dorados guizzanti e scintillanti al sole. Nella casa di lamiera, legno e mattoni, nonna Salvadora fumava la pipa. Papà Chitoro faceva il trituraossa nello stabilimento chimico di Buenos Aires e mamma Tota partorì sette figli, quattro femmine di figlia prima del primo maschio che fosti tu, Dieguito, con tanta peluria in testa da diventare per tutti el pelusa.
Un raggio di luce si accese a Villa Fiorito e, nel raggio, il bambino che eri fece numeri da circo col pallone del cugino Beto, e tutti vennero a vederti. Più di tutti, don Francisco Cornejo arrivò e vide. Era un impiegato del Banco Hipotecario Nacional di Buenos Aires e talent-scout di gambe e piedi promettenti di bambini, che fiutava e scovava nelle periferie, e disse: "Il nano è un fenomeno". Eri il più piccolo di tutti. Elogio del palleggio infinito di Diego Armando Maradona raccattapalle dell'Argentinos ai bordi del campo quando, nell'intervallo di una partita di campionato, prendesti il pallone e, sotto gli occhi di meraviglia di don Yayo, l'uomo che su un camioncino trasportava i ragazzini del fùtbol dalle loro povere case al campo d'allenamento, cominciasti uno dei tuoi palleggi infiniti, sinistro, testa, spalla, destro, esterno coscia, ginocchio, piede mancino, il pallone sollecitato a non toccare mai terra, e gli occhi divennero migliaia su di te e centomila bocche gridavano "olè, olè" accompagnando il palleggio di meraviglia.
Le squadre tornarono in campo per ricominciare a giocare, ma la folla ti urlò "rimani, rimani", e tu continuasti, e la folla urlò "ancora, ancora", ma l'arbitro ordinò il perentorio inizio del secondo tempo. Allora, smettesti e con un colpo di tacco del piede mancino calciasti il pallone verso don Yayo che lo raccolse e sorrise mentre lo stadio emetteva un grande sospiro di stupore e letizia. Questo è l'inizio di una storia infinita, di una vita da romanzo. Dicevi: "A me è venuta la pelle dura per quello che ho vissuto a Villa Fiorito". La pelle non fu dura abbastanza alle prime insidie della vita, nello stordimento improvviso, sotto i colpi contrari. Nelle notti catalane, l'agrodolce di una tentazione vaporosa e soffice,
una polvere di luna viziosa, la forza candida di una stella esplosa, eri sicuro di domare quell'amica improvvisa e l'inebriante piacere della fantasia che scatenava perché era solo un gioco.
A Napoli, Mimì Rea disse: "La faccia di Maradona da pianeta della miseria ha conquistato i napoletani prima del suo colpo di tacco. Questo è un virtuosismo, quella è una storia che i napoletani conoscono benissimo. Diego ha una faccia sulla quale si legge un benessere recente, di recente si è rassodata, i capelli sono da poco cresciuti alla moda, ma è una faccia sulla quale le ombre, le rabbie, le privazioni di un passato povero palpitano ancora sotto tutti quei riccioli neri". La faccia di Napoli. Ecco l'incantesimo che ci prese tutti. Eri uno di noi. Seguirono le magie al "San Paolo" e le notti allo "Zapata" e alla "Cachassa". Avevi due Ferrari, una nera esclusiva, una Rolls Royce decappottabile, una Mercedes, due Renault e un'Hyunday perché eri il re di Napoli. I ragazzi si fecero i capelli "alla Maradona" e chi non ci riusciva poteva comprarsi la parrucca di riccioli neri "alla Diego". Cantavamo: "O mama, mama, mama, sai perché mi batte il corazòn".
Peter Green del "Sunday Mirror" scrisse: "Maradona si muove sul campo con l'eleganza di Fred Astaire". "El Grafio" di Buenos Aires scrisse: "Hoy en el mundo entero, Maradona es el fùtbol mismo". Il tuo giocare a pallone da artista senza uguali era un messaggio di gioia e un lungo brivido di felicità. Ma fu nel giorno drammatico della confessione del peccato, quando ormai te ne eri andato dalla città del golfo,
tradito dall'imboscata di un controllo negli spogliatoi, in quel giorno in cui da Buenos Aires apparisti sugli schermi televisivi, gonfi e malinconico, per dichiarare il vizio sovrano di cui ti eri fatto suddito triste, quel giorno diventasti nostro figlio e fratello da proteggere dalle ingiurie del mondo. In quei lunghi mesi di una lotta senza tregua, della dannazione cadendo e rialzandoti, quando vedesti due volte il Barba, quando sembrava la fine e ricominciavi, guerriero magnifico, idolo infranto e perciò più vicino a noi che idoli non eravamo ma avevamo le nostre debolezze, i nostri peccati, le nostre cadute, in quei lunghi giorni, più che per le tue magie sul campo delle delizie, sei rimasto scolpito nei nostri cuori per sempre.
Perché fosti un uomo, la più fragile delle creature su questa Terra. Quello che hai fatto per uscire dall'inferno in cui ti eri cacciato, sprofondandoci dolorosamente ogni giorno in quei giorni napoletani in cui avevi vergogna di farti vedere, è stato il massimo della tua gloria, quando il leone che sei ha abbattuto la scimmia che si era impossessata di te. Oggi è bello sapere che tutto è passato, che l'incubo è ormai lontano, che Diego-Dieguito è un uomo che ha ristabilito la pace con se stesso. E mai ha dimenticato Napoli e Napoli mai ti ha dimenticato. Nel giorno in cui vincesti la Coppa del Mondo in Messico, dicesti: "Questa coppa è anche dei napoletani". Paladino delle nostre monellerie, dei nostri affanni, del nostro orgoglio. E peccatore, grande peccatore come tutti noi di ogni sud del mondo, calienti e smarriti, fedeli-infedeli, allegri-tristi, felici e dannati, timorati di Dio e in combutta col Demonio per addentare la vita prima che la vita ci mangi.
Mimmo Carratelli