Razzismo, quanto gli italiani sono razzisti, perché lo sono o lo sono diventati? Dopo avere letto e recensito il libro di Ezio Mauro, "L’uomo bianco", che prende spunto dalla vicenda di Luca Traini, lo sparatore di neri a Macerata, ho fatto alcune riflessioni. Sono osservazioni personali ma le rendo pertinenti. Credo che gli italiani siano stati potenzialmente razzisti sempre. Se mi riferisco al microcosmo di casa mia a Genova nel dopoguerra, sentivo mia madre, donna semplice, del popolo si sarebbe detto una volta, parlare con disprezzo dei "gabibbi", i meridionali (vicino di casa), con rancore dei piemontesi (la suocera), con distaccato rispetto degli ebrei. Prevaleva la solidarietà umana, lo sdegno per quegli italiani sospettati di averli traditi per impadronirsi dei beni loro affitti, il tutto aggravato emotivamente dalla vicenda di una famiglia del quartiere mezzo sterminata a Mauthausen, gente ricca, educata, gentile, il cui ultimo discendente sopravvissuto era mio compagno di scuola in prima elementare e mio caro amico ancora oggi, quasi 70 anni dopo.
Per essere sincero penso che gli italiani non siano stati antisemiti come i russi e i tedeschi, ma solo moderatamente, nonostante le crudeltà della Chiesa, per mancanza di opportunità. Gli ebrei italiani erano troppo pochi per provocare sentimenti di massa e in genere abbastanza ricchi (e per i ricchi il popolo, non il popolaccio sanculotto grillino) ha sempre nutrito un certo rispetto e timor di dio, perché non ci fossero e ci siano quelle frizioni che caratterizzano i rapporti fra fasce economiche e sociali di gruppi etnici diversi. Procuratevi "The fidler on the roof" sui primi pogrom in Ucraina a partire da fine ‘800. Lo scontro era fra contadini, fra poveri e vicini di casa.
Gli inglesi sono razzisti. Rileggete Ivanohe di Walter Scott, un libro che trasuda antisemitismo oltre che odio verso gli invasori normanni di otto secoli prima, ancor oggi struttura portante della classe dirigente, famiglia reale in testa. Classismo e razzismo sono un tutt’uno da quelle parti, con tutta una gerarchia di valori. Quando si trattò di scegliere fra l’ebreo cecoslovacco Robert Maxwell e il cristiano australiano Rupert Murdoch per l’assegnazione del Sun, l’appartenenza cristiana prevalse. Quanto ai francesi, basta pensare allo scandalo Dreyfuss, il caso di Alfred Dreyfuss, l’ufficiale condannato per spionaggio e mandato alla Cayenna solo perché ebreo. Certo da noi c’è stata la pagina vergognosa delle leggi razziali. Ma la loro promulgazione non veniva incontro a un sentimento popolare né trovava consenso come in Germania (con l’oro degli ebrei sterminati nei campi Hitler ci pagava le pensioni alle vedove di guerra), era piuttosto frutto di una bieca scimmiottatura servile di Mussolini, che trovava terreno fertile, in modo vergognoso ma limitato, nella sempiterna inclinazione degli intellettuali verso il potere di Augusto e i soldi di Mecenate (Virgilio, Orazio, Ovidio erano sicofanti di lusso; Mecenate faceva un po’ da killer imperiale, quando il suo protettore morì dovette scappare).
Il razzismo è sentimento universale. Coinvolge anche persone perbene e profondamente democratiche. Ricordo uno dei fondatori dell’Espresso, uomo di intransigente rigore antifascista, figlio di un professore rimosso dal regime. Ma quando litigava con un dirigente della nuova generazione, che poi per fortuna di tutti noi se ne andò prima di fare troppi danni, mi telefonava per sfogarsi e io, genovese consolavo lui, ligure, delle malefatte del collega, siciliano, dicendogli in dialetto: "Cosa ti ghe voe fâ, o l’é un gabibbo", lui si rasserenava di colpo. "Ti gh’ae raxon, o l’é propio un gabibbo", rideva facendosene una ragione e appendeva rasserenato. Il razzismo è fisiologico. Sono razzisti i triestini verso i friulani, i friulani verso i veneti, i baresi verso i leccesi. Lo sono anche quelli di Recco verso quelli di Camogli, ma al massimo arrivarono a gettarsi in mare rovesciando le barche durante epiche partite di pallanuoto nei ruggenti ’60. Ora al massimo si scambiano barzellette al vetriolo, mentre fanno fronte comune sulla scemenza della focaccia Igp.
È quando la fisiologia diventa patologia che c’è da avere paura e si fa danno. Il comunismo ingabbiò il razzismo che opponeva etnie e religioni fino alla morte di Tito e alla implosione della Yugoslavia. Non tenne a bada il razzismo russo ma ci riuscì con quello islamico nella Russia asiatica ma solo fino alla caduta dell’Urss. Per parlare di comunisti italiani, ricordo sempre un sindaco di Torino, ben noto anche a Ezio Mauro, il quale rimpiangeva, con un certo candore, quando nelle fabbriche concentrate in Borgo San Paolo gli operai parlavano tutti piemontese. Il razzismo è sublimato dall’interesse nelle classi alte. Più immigrati vogliono dire più occasioni di manodopera spesso più qualificata di quella indigena a basso costo. È la tesi di Sahra Wagenknecht, comunista da sempre, stella di prima grandezza della Sdp, il partito socialdemocratico tedesco.
MARCO BENEDETTO EDITORE-DIRETTORE BLITZQUOTIDIANO