Nella vicenda di Monongah ci sono tutti gli elementi di una immane tragedia che chiama in causa, però, non la fatalità di un destino avverso ma le precise, atroci responsabilità delle classi dirigenti. Bisogna insistere su questo punto, anche per evitare che questa straordinaria inchiesta del direttore e dei giornalisti di Gente d’Italia possa essere interpretata come un semplice omaggio alle centinaia di vittime o, peggio, come una retorica cerimonia allestita con immenso ritardo per salvarsi a posteriori l’anima.
A rappresentare, con struggente simbolismo, la parte sostanziale che va fatta, per la vicenda di Monongah, al dolore umano basta la testimonianza di quella vedova che per
vent’anni ha accumulato una montagna di carbone dietro la sua casa, portando ogni giorno un cestino dalla miniera, nella desolata speranza di ritrovarvi almeno una parte dei resti del compagno perduto. La responsabilità, dicevo, delle classi dirigenti.
In primo luogo, ovviamente, quella italiana che tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo scorso hanno creduto cinicamente di risolvere i problemi del Mezzogiorno con l’emigrazione di milioni tra i più poveri contadini, anzicchè distribuire, razionalmente ed equamente, le risorse nazionali che hanno destinato, invece, quasi per intero alla protezione della nascente grande industria della pianura padana o al finanziamento di sciagurate avventure coloniali come quelle in Eritrea e in Libia.
Responsabilità dei governi, dei partiti, dei poteri forti rese ancora più gravi ed imperdonabili dal totale abbandono economico, morale, culturale, sanitario in cui lasciarono per decenni i milioni di poveri emigrati, costretti a vendersi fino all’ultima mucca e ad abbandonare per sempre la terra, la lingua, la famiglia nativa pur di inseguire il miraggio di una sistemazione in capo all’infernale avventura di lunghissime traversate oceaniche a bordo di spregevoli carrette del mare simili a quelle dei più infami trafficanti di schiavi.
Ma insieme con le responsabilità dei ceti dominanti italiani la tragedia di Monongah ci aiuta a cogliere anche quelle delle autorità americane, da Washington al West Virginia, che non solo all’inizio del Novecento ma per tutto l’ultimo secolo hanno prodotto il massimo, spregevole sforzo per minimizzare le dimensioni di quel tombale olocausto, se non addirittura per farlo dimenticare. La moda culturale del momento che stiamo vivendo attualmente in Europa suggerirebbe di lanciare il solito anatema contro la civiltà e la cultura degli Stati Uniti, che, indubbiamente, in questa come in altre circostanze di allora e di oggi non possono essere assolte; ma basta pensare all’odiosa pratica della Lega padana, alle drammatiche rivolte della "banlieu" francese o anche ai caotici Centri di accoglienza allestiti sulle isole e sulle coste del nostro Sud per rendersi conto di una amara verità, quella che noi napoletani condensiamo nell’amara sentenza:"’o sazio nun crede ‘a’o diuno".
Il paradosso fu, per quanto riguarda i milioni di nostri emigranti in America, a cavallo degli ultimi due secoli, che l’unico aiuto organizzato venne loro dalla mafia, quella che allora si chiamava Mano Nera e che, naturalmente, si faceva pagare carissima la sua presunta carità. Per fortuna, e sia detto tranquillamente da un laico convinto come il sottoscritto, ci furono – e non solo a Monongah – sacerdoti, suore, intellettuali italiani ed americani che restituirono ai nostri sfortunati fratelli (solo in minima parte ma con immensa generosità) la solidarietà umana perduta.
Antonio Ghirelli