Crollo, tracollo, sconfitta, disfatta, schianto, flop. Dall’Abruzzo alla Sardegna, con tutta la loro impreparazione e inesperienza il Movimento Cinquestelle è riuscito perfino a far risorgere il centrosinistra a livello locale. Tanto da mettere in discussione se non proprio la leadership di Luigi Di Maio quantomeno il suo triplice incarico di capo politico del M5S, vicepremier e ministro dello Sviluppo economico: un carico di responsabilità certamente troppo pesante per chiunque e ancor più per un personaggio come lui al quale Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, ha attribuito “una buona dose di infantilismo e di inadeguatezza”. Già due settimane fa, all’indomani delle elezioni regionali abruzzesi, avevamo avvertito che “il Movimento s’è fermato”. Ora, dopo il voto sardo, sarebbe azzardato dire se la caduta è finita o proseguirà ancora. Ma verosimilmente i rappresentanti dei grillini al governo hanno “bruciato” una buona quota del patrimonio di affidabilità e di speranza che appena un anno fa li aveva portati al 32%. Alle prossime politiche potranno anche fermarsi a metà strada o scendere al di sotto, ma manterranno comunque un residuo potere di veto e d’interdizione. Non tanto forse da replicare l’alleanza innaturale con la Lega nella nuova legislatura, ma sufficiente magari a condizionare le scelte del centrosinistra. Sarà un “tripolarismo zoppo”, in cui nessuno dei tre poli potrà fare maggioranza e governare da solo, ma ognuno potrà influenzare l’uno o l’altro a seconda delle circostanze.
Se da una sponda Matteo Salvini annuncia in tono minaccioso “non tornerò mai nel centrodestra”, dall’altra il nuovo Pd che nascerà dopo le “primarie” di domenica prossima e dopo il Congresso nazionale, probabilmente sotto la guida di Nicola Zingaretti, dovrà fare i conti con questa realtà per aggregare in futuro un’eventuale maggioranza. E non c’è dubbio che esistono più affinità con la parte più progressista del M5S rispetto alla Lega, a Forza Italia e a Fratelli d’Italia. Prima o poi, il Partito democratico sarà chiamato a confrontarsi non tanto con gli attuali dirigenti pentastellati, quanto con la base elettorale che esprime una domanda di equità e di giustizia sociale, più vicina ai valori di una sinistra moderna e riformista: fra delusi e astenuti, si tratta di oltre due milioni e mezzo di voti che sono emigrati verso il Movimento o sono andati dispersi. Che cosa può fare dunque il Pd in una tale prospettiva? Può cercare innanzitutto di replicare su scala nazionale il modello realizzato con successo in Abruzzo e in Sardegna, all’insegna del “civismo” che ha consentito di recuperare consensi in ambito regionale, ampliando lo schieramento progressista sulla base di una visione condivisa della società e dello sviluppo.
L’obiettivo centrale resta quello di ridurre il più possibile le disuguaglianze, in modo da assorbire la tensione, la protesta e la rabbia che hanno dirottato i consensi a favore del M5S. E naturalmente, al primo posto c’è la necessità di rilanciare l’occupazione, attraverso gli investimenti produttivi, pubblici e privati, a cominciare dal Mezzogiorno d’Italia. Da qui alle prossime elezioni politiche, quello che occorre per costruire un’alternativa è un “centrosinistra XL”, extra large, plurale e allargato. Un fronte più ampio, imperniato sull’asse portante del Pd, capace di mettere insieme forze moderate e riformatrici, contrapposte alla Lega e a tutto il centrodestra. Un’alleanza democratica contro il sovranismo, l’autoritarismo strisciante, l’intolleranza e il razzismo incarnati oggi dal leader del Carroccio, in modo da rendere la vita nazionale più civile e pacifica. Se per raggiungere l’obiettivo fosse necessario sul piano mediatico ripristinare quel simbolico trattino fra centro e sinistra che fu virtualmente abolito per fondare il Partito democratico, ben venga anche questo espediente comunicativo. Servirà magari a distinguere meglio le due componenti dello schieramento, offrendo una soluzione più praticabile e credibile all’elettorato progressista.
Al centrodestra a trazione leghista, si potrà opporre così un centro-sinistra a trazione integrale, con un assetto più stabile ed equilibrato. Non basta evidentemente un trattino per fare una coalizione né tantomeno una cultura di governo. Ma forse quel segno di punteggiatura potrebbe restituire alla sinistra almeno un pezzo dell’identità perduta, accrescendo il suo potere contrattuale nei confronti dei moderati liberal-democratici o eventualmente della parte più avanzata dei Cinquestelle. Con le “primarie” di domenica prossima, il popolo del Pd avrà l’opportunità di avviare un nuovo percorso, per il proprio partito e soprattutto per la democrazia italiana, aprendo un orizzonte di fiducia e di crescita.