A nove mesi esatti dal crollo, il tempo di una gestazione, la domanda è legittima. A che punto è il ponte, la sua demolizione, così spettacolare e complicata, come si innesta alla sua ricostruzione, che viene vista alla stregua dell’alba di un tempo nuovo per tutta la città? Come si svolta dall’abisso della sciagura? Non è tanto l’anniversario che pone la domanda, ma un giornale come "Repubblica", che ti piazza Genova tra le città "in bilico", proprio per i rallentamenti sul Morandi e insiste sul tema, segnalando gli scostamenti dalle date annunciate e riannunciate dal sindaco-commissario Marco Bucci: entro il Natale 2019 il nuovo ponte sarà in piedi, il 20 aprile 2020 il nuovo ponte sarà inaugurabile, quindi percorribile. Se nel giorno dell’anniversario, nove mesi dopo, vai sotto il ponte come ho fatto io, vecchio cronista, in una giornata di grande luce, quelle date ti sembrano impossibili.
Il ponte maledetto domina ancora la valle con i suoi tratti interrotti, con i suoi pieni e con i suoi vuoti, con le pile assaltate dalle gru e con quelle ancora in piedi verso Levante, verso l’elicoidale che svetta come se niente fosse sopra le case sfollate di via Porro, del Campasso, provvisorie nella loro esistenza di condannate allo sbriciolamento, ma ben piantate con il loro carico di ricordi, di vita esportata dai suoi muri, tra lacrime, rimpianti, nostalgie struggenti. La scena del dramma consumato il 14 agosto, alle ore 11,36, un po’ è cancellata dalla scomparsa delle macerie là sotto, nel fiume secco, ma torna nel vuoto tra le campate, sopratutto in quello principale che si era aperto con il crollo e che ora è uno dei tanti vuoti che le macchine hanno aperto, demolendo a fette l’asfalto lassù, le pile che sostenevano il viadotto, quaggiù a terra. Non sai capire se quello che resta in piedi sia di più di quanto è stato smontato, ma la scena della valle è ancora violentata, con le interruzioni, gli spazi aperti e quelli chiusi. Il brulichio dei demolitori, delle gigantesche macchine, indica che l’operazione è gigantesca, che la ferita è uno strappo quasi monumentale nell’orizzonte della Valpolcevera messa a soqquadro da quel giorno maledetto.
Se poi vai a cercarti le angolazioni diverse per "guardare" il ponte, o come si guarda un killer immobilizzato dopo l’assassinio o se, invece, osservi da ottimista il cantiere operoso, le impressioni cambiano. Lassù a Coronata il ponte sembra un tratteggio colossale, disegnato con tratti diversi di passaggio tra il vuoto e il pieno e un po’ ti inquietano sullo sfondo più lontano l’elicoidale ancora intatto e il suo contorno di case, collina, evoluzioni dei collegamenti con l’autostrada ancora "vivente", quella che sale di lato verso i Giovi, verso l’entroterra. Se sbuchi come in un agguato sotto via Fillak, al Campasso, dopo aver attraversato via Porro e rimirato non senza angoscia i grandi palazzi vuoti della superevacuazione, dello sfollamento, il ponte e quel che ne resta ti sembra ancora incombente, quasi minaccioso, come una belva ferita. Copre ancora i tetti delle case, poggiando sopra, ma poi più avanti si interrompe quasi di colpo nel vuoto del primo smontaggio, proprio sopra l’argine spogliato della sua copertura. Se ti sposti ancora e vai a Brin, sopra la stazione della metropolitana e guardi da una posizione opposta a quella di prima, vedi il vuoto che sprofonda verso il porto, e verso il mare e ti sembra impossibile pensare che tra cinque, sei, otto, nove, mesi, chissà quanto tempo, quella visuale sarà di nuovo coperta dal nuovo ponte.
È vero: sembra impossibile che quelle date di Natale e di aprile 2020 possano essere rispettate, perché demolire è molto più difficile che ricostruire, perché c’è l’amianto, meno magari di quello che sembrava, perché l’esplosivo è una pratica complicata da applicare a quegli stralli, a quei palazzi muti là sotto, perfino al sacrario di questa valle colpita, ferita a morte, ma ancora viva, perché ogni giorno c’è un problema da superare, il vento, la pioggia, perfino la mafia, comparsa come un’ombra tra le ditte appaltatrici... Se ti dicono che tutto potrà slittare di otto mesi, di un anno perfino, non sembra catastrofismo: osservi tutto quel cantiere immenso, che sembra un alveare, nella luce sfolgorante di maggio che buca per un giorno le nuvole, e percepisci che siamo ancora in una atmosfera di lutto, davanti a una tragedia immensa e un po’ chini il capo. Ma poi ti sposti ancora, se vai più dentro alla città sotto il ponte, nei quartieri sfalciati dal crollo, di nuovo a Brin, dove la metropolitana scarica centinaia di passeggeri, se giri per le strade di Certosa, se sali verso la chiesa di san Bartolomeo in quel chiostro, ieri pieno di sfollati e danneggiati, ora pieno di mamme e di bambini che giocano sul campetto verde e ripercorri le vie e le trovi fitte di gente, i negozi tutti aperti, gli anziani a crocchi sulle panchine, capisci che qui la speranza, non la rassegnazione, ha vinto.
Ti sembra che la tragedia sia stata inghiottita, digerita e che la vita, il tran tran quotidiano abbiano ripreso il sopravvento. I fruttivendoli hanno esposto la loro merce colorata fuori dai negozi, con tutte le primizie della stagione, nei bar il chiacchericcio è fitto, magari sulle disgrazie del Genoa e sulla Samp, di cui sventolano in questi quartieri tante bandiere, che sta per essere venduta. Non ci sono più saracinesche tirate giù in un silenzio disperato. Non sembra, come dopo la tragedia che poco più in là ci sia quasi un muro che spezza la valle in due. Ora si passa, magari un po’ a intermittenza, ma si passa, il blu del cielo ti porta anche qualche riflesso del mare laggiù, oltre il ponte, oltre le nuove strade dei collegamenti ristabiliti. Capisci, allora, che l’ombra del grande cantiere, duecento metri più in là, nel cupo rimbombare dei lavori, nel movimento silenzioso delle grandi gru, nel viavai dei mezzi intorno, infonde quella speranza, ti stringe ancora il cuore nella morsa del dolore per quel che è stato, ma ti dice anche che si va avanti. Che non si molla. Certo, forse sono in ritardo, di quindici giorni, come tranquillizza il sindaco, di più come osservano i critici, forse l’operazione di demolire e ricostruire è immensa, ma lo stanno facendo, ci stanno provando a ricorrere quel tempo, a cercare di ridurlo al minimo, a mantenere le promesse.
Forse si è perso un po’ di tempo all’inizio, nella lite sulla concessione da revocare alle Autostrade, nella preparazione di un decreto Genova molto più faticoso del previsto, che solo l’unità ferrea della città e dei suoi rappresentanti ha fatto correggere. Bucci e anche Toti di più non potevano fare e diversamente non potevano dire: questo va sempre riconosciuto. A volte si è anche istituzionalmente obbligati a essere ottimisti. Rixi, il vice ministro ora sotto scacco per il processo del 30 maggio, si è speso a collegare i genovesi, prima rassegnati, poi un po’ meno disperati, poi fiduciosi, con il governo romano, con quel Toninelli che ne ha sparate tante, anche a vanvera. Ora la vera operazione, che sta dietro quel grande cantiere, nove mesi dopo la ferita, è anche un po’ demolire il pessimismo, che può incominciare a serpeggiare sopra e sotto il ponte, nella città ancora colpita e nel mondo che la osserva. Il ponte di Genova, lo ricostruiscono o no?
Franco Manzitti