Tutti quelli che non vogliono i migranti fra i piedi (soprattutto le eleganti signore di sinistra) battono e ribattono uno slogan: aiutiamoli a casa loro. Perfetto. Questa è saggezza, vista lunga, buon senso. Peccato che le cose non siano così semplici. Le contraddizioni e le difficoltà sono enormi. Già distribuire sapone, in Africa, crea un problema: aumenta infatti l’igiene, salgono i tassi di sopravvivenza e la popolazione aumenta ancora più in fretta.
Anni fa si era fatto uno studio sull’Africa e si era arrivati alla conclusione che per una dotazione minima (una lampadina da 20 watt, per liberarli dal ciclo del sole, e un piccolo frigorifero, per liberarli dall’obbligo quotidiano di cercare cibo), servissero 300-400 centrali nucleari di buona potenza. Senza questa dotazione di energia in Africa non può succedere niente. Niente di interessante e di utile. Non ci può essere crescita.
Ma qui sorge subito un problema. Una centrale nucleare è un affare delicato. In pratica si può fare solo in paesi con una certa evoluzione culturale, dove quindi sia abbastanza agevole trovare personale attento e specializzato (l’Italia, stupidamente, ha scelto di non farle e invece eravamo bravi). In più sarebbe necessaria una certa stabilità e maturità politica: le tecnologie nucleari non si possono disperdere nel mondo come fiori di campo. È roba comunque pericolosa.
Ma, si dirà, nel frattempo sono arrivate le energie rinnovabili. Ma solo dei pazzi possono pensare di far funzionare una città di 8-9 milioni di abitanti (e in Africa ce ne sono) con i pannelli solari o le pale a vento. Per non parlare degli eventuali impianti industriali. L’Africa, insomma, sembra essere prigioniera delle sue stesse contraddizioni e "aiutiamoli a casa loro" solo uno slogan. Una soluzione potrebbe essere quella di costruire, in fretta, centrali nucleari, affidate però a organismi internazionali, sotto stretto controllo cioè di cose tipo Onu o Unione europea. Ma già sento il coro delle proteste: questo è nuovo colonialismo. E allora aspettiamo ancora un po’. Aspettiamo l’arrivo di un altro miliardo di africani.
Giuseppe Turani