Nella sceneggiata ormai quotidiana sulla crisi migratoria, di fronte alla "sfida infinita" tra il Governo italiano – o meglio, il ministro dell’Interno, Matteo Salvini – e la flotta pacifica delle Ong, la sinistra appare incerta, smarrita e ancora una volta divisa. Non possono bastare evidentemente le "comparsate" di Orfini e Del Rio a bordo della "Sea Watch", contestate peraltro da Calenda, per esprimere e comunicare una linea chiara e precisa su un tema epocale come questo. Né tantomeno giovano al Partito democratico i dissensi retroattivi manifestati in una recente intervista da Matteo Renzi nei confronti dell’ex premier Paolo Gentiloni e dell’ex ministro Marco Minniti: ha ragione Nicola Zingaretti a liquidarla ironicamente come un’autocritica, perché in quel periodo l’ex rottamatore era segretario del Pd e non risulta che abbia contestato le scelte dei suoi colleghi di partito o ne abbia preso le distanze.
Ma, a parte le polemiche interne che lasciano il tempo che trovano, qual è oggi la linea politica Pd sull’emergenza immigrazione? Non si va al di là della retorica umanitaria e dell’appello rituale alla solidarietà, nell’impotenza o nell’incapacità di proporre un’alternativa concreta e praticabile rispetto alla propaganda leghista dei "porti chiusi" e del "qui non sbarca nessuno". Né si combatte la propaganda dicendo che è solo propaganda. Eppure, proprio sotto il governo Gentiloni, sembrava che Minniti avesse individuato correttamente una strategia per aumentare i controlli e ridurre gli arrivi dei migranti, ricercando accordi con i Paesi di provenienza in modo da contenere le partenze. E s’erano già visti i primi risultati. Nella stessa base del Pd, è diffusa la tentazione di fare concorrenza a Salvini e di scavalcarlo – per così dire – sul piano dell’intransigenza. "A brigante, brigante e mezzo", dice un vecchio proverbio popolare. Ma può un partito di sinistra, d’ispirazione democratica e progressista, adottare il "brigantaggio" come tattica di opposizione nei confronti della maggioranza di governo?
Il filibustering, cioè l’ostruzionismo, è previsto dal galateo istituzionale nelle aule parlamentari, non nel confronto e nel dibattito pubblico. Non è detto poi che una scelta del genere possa assicurare consensi e voti a un partito come il Pd, se non altro perché maturerebbe in ritardo mentre questo settore del campo è già saldamente presidiato dalle truppe del Carroccio. Che cosa può dire e fare la sinistra (cioè il Pd), dunque, per trattare in modo più efficace la questione e distinguersi dallo schieramento giallo-verde? Senza mutuare il linguaggio truce e l’atteggiamento autoritario di Salvini, può innanzitutto incrementare la pressione diplomatica sull’Unione europea, per modificare e aggiornare quelle norme che regolano attualmente i flussi immigratori, in modo da condividere più equamente l’onere dell’immigrazione: a cominciare dalla riforma dell’infausto Trattato di Dublino che attribuisce l’accoglienza ai Paesi di primo sbarco, come ha auspicato nei giorni scorsi il neo-presidente del Parlamento di Strasburgo, David Sassoli; fino al rispetto delle quote di ripartizione, più disattese proprio dagli Stati sovranisti, ai quali sarebbe opportuno comminare sanzioni economiche in caso di inottemperanza.
In secondo luogo, sulla strada già intrapresa da Minniti, occorre sollecitare un intervento politico degli organismi internazionali – dall’Unione europea all’Onu e alla Nato – per affrontare il problema alla radice. È necessario rimuovere le cause dell’immigrazione piuttosto che contrastarne gli effetti. I migranti non fuggono dai loro Paesi perché esistono gli scafisti e i "trafficanti di uomini", come tende a far credere enfaticamente Salvini, bensì per sottrarsi alle guerre, alle torture e alle violenze, alla povertà e alla fame. Se non si rimuovono le cause di fondo, quel popolo di disperati continuerà a partire con qualsiasi mezzo per attraversare il Mediterraneo e conquistare la sopravvivenza. "Aiutarli a casa loro", non può essere soltanto uno slogan da campagna elettorale né un alibi per respingerli: è un obiettivo che richiede impegno e coerenza. E se Vladimir Putin si offre di partecipare a questa complessa operazione per cercare di risolvere la crisi libica, come ha annunciato nella sua recente visita in Italia, ben venga anche il contributo della Russia.
Bisogna istituire infine i "corridoi umanitari", per regolare i flussi immigratori in terra e in mare. L’obiettivo prioritario non dev’essere tanto quello di impedire che i migranti arrivino nei nostri porti, quanto di evitare che partano. E comunque, quando sbarcano sulle nostre coste, vanno identificati e registrati per non rischiare di confondere i rifugiati e i richiedenti asilo con i terroristi militanti o potenziali. Ma anche in questo caso bisogna riuscire a coinvolgere l’intera comunità internazionale, per ottenere risultati apprezzabili e duraturi. In un mondo diviso ormai in verticale, fra Nord e Sud, Paesi ricchi e Paesi poveri, la verità è che la crisi migratoria non è altro che un lungo e sofferto processo per cui i poveri tendono a essere un po’ meno poveri per sopravvivere e i ricchi saranno costretti a essere un po’ meno ricchi per ridurre le disuguaglianze sociali. La pressione demografica non è uno "tsunami", un terremoto o un’altra calamità naturale che prima o poi passa. "Il futuro dell’Europa sarà nei prossimi decenni un futuro d’immigrazione", avverte il professor Nicola Daniele Coniglio, docente di Politica economica all’Università di Bari, in un saggio pubblicato da Laterza sotto il titolo "Aiutateci a casa nostra". E questo esodo di massa non si fermerà né chiudendo i porti né innalzando muri ai confini.
Giovanni Valentini