L’ultima volta che incontrai Paolo Borsellino fu il 24 maggio 1992. Erano le otto di sera. Giovanni Falcone e sua moglie Francesca Morvillo erano morti da poco più di ventiquattro ore a Capaci, insieme a Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro, tre uomini della scorta. Borsellino entrava e usciva dagli uffici della Procura al secondo piano del Palazzo di Giustizia con le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti, la sigaretta tra le labbra e gli occhi rossi e gonfi. Lo osservavo, seduto nell’anticamera, in quell’andirivieni convulso. Non riusciva nemmeno più a piangere, stordito da quella strage impensabile e orrenda che aveva sventrato l’autostrada che collega l’aeroporto a Palermo portandogli via l’amico più caro, e schiacciato dall’incombenza di coordinare un’indagine che però gli serviva prima di tutto per non pensare a ciò che sarebbe venuto dopo. Mi fece entrare nella sua stanza invasa dal fumo.
Si sedette alla scrivania, spalle alla finestra, e in quel momento realizzai che per farlo fuori sarebbe bastato un cecchino piazzato sulla terrazza di uno dei palazzi sul lato opposto della piazza. Glielo dissi. Gli dissi anche: possibile che nemmeno il vetro sia blindato? Lui mi guardò facendo un cenno molto siciliano con la mano, un’altra sigaretta accesa tra le dita, e bofonchiò qualcosa come: "Fosse solo questo…". Poi cominciammo a parlare. E credo che anche quell’intervista, che uscì il giorno dopo sul Corriere della Sera, gli servisse per tenere la mente occupata, e tuttavia gli sono ancora grato di quell’ora che riuscii a rubargli in un momento in cui sembrava che quel Palazzo di Giustizia tormentato dai morti e dai veleni dovesse sprofondare sotto il colpo più feroce messo a segno da Cosa Nostra. Il primo vero atto di guerra contro lo Stato. O almeno il più eclatante, seguendo la logica del procuratore Nino Di Matteo, che invece retrodata l’inizio dell’attacco armato alle istituzioni del nostro Paese all’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel 1982. Oggi, trentasei anni dopo quell’incontro, quelle due battute scambiate sul vetro della finestra alle sue spalle, mi sembrano la continuazione coerente dell’audio dell’audizione che Borsellino fece davanti alla Commissione antimafia nel 1984.
Quattro minuti in cui fu costretto a spiegare che l’unico computer assegnato al pool di magistrati che doveva combattere Cosa Nostra giaceva privo di collaudo da due mesi. Quattro minuti per spiegare con pacatezza che avere la scorta solo di mattina, con un’unica auto blindata per quattro procuratori, significava da parte dello Stato mettere nel conto di consegnarlo alle pallottole della mafia la sera. Quattro minuti per confessare ai parlamentari, allo Stato, che il pomeriggio tornava a lavorare a Palazzo di Giustizia con la propria macchina. Per sentirsi dire da qualcuno, in sottofondo, che quello era un segno di libertà. La libertà di farsi ammazzare. Come poi sarebbe accaduto domenica 19 luglio 1992, sotto casa di sua madre. Con un’autobomba in tutto e per tutto simile a quella che nel 1983 aveva sventrato la macchina del capo dell’ufficio istruzione Rocco Chinnici. Ecco, ascoltare quegli audio desecretati, riascoltare la voce di Paolo Borsellino, è una esperienza da brividi che accende nuova rabbia. Almeno quanto sapere che per un’intervista in cui ha semplicemente messo in fila gli interrogativi ancora aperti sulla strage di Capaci (per non parlare di quella di via D’Amelio che fece a pezzi Borsellino e la sua scorta di cinque persone, della sua agenda rossa sparita e i depistaggi che seguirono), il procuratore Nino Di Matteo è stato estromesso dal pool d’indagine sulle stragi della Direzione Nazionale Antimafia. In attesa che il Consiglio Superiore della Magistratura decida se ratificare quella decisione o reintegrarlo nelle funzioni. Questo Csm, di cui da settimane abbiamo scoperto intrallazzi e collusioni impensabili con la politica.
Con intercettazioni nelle quali, guarda caso, si accenna proprio all’auspicio che Di Matteo venga messo fuori gioco dal coordinamento sulle inchieste che permetterebbero di non consegnare solo alla storia e alle commemorazioni quelle stragi, senza che sia fatta piena luce sulla possibile complicità tra Cosa Nostra a pezzi deviati dello Stato. Uno Stato senza memoria, distratto, a cui farebbe bene ascoltare quegli audio per recuperare nell’agenda quotidiana, tra selfie, panini e salsicce, anche una parola che quando raramente viene pronunciata sembra sia quasi per caso: Mafia.