L’inchiesta sul crac dell’Unità. Inteso come ex storico giornale del Partito Comunista Italiana. Pari pari, ai tempi, l’organo ufficiale. La Procura vuole processare dodici persone, tra imprenditori e manager. Bancarotta fraudolenta aggravata e preferenziale il reato contestato. I dodici avrebbero ignorato le pessime condizioni dei bilanci dell’Unità. E invece di portare i libri in tribunale avrebbero proseguito nella dissipazione patrimoniale. Maurizio Mian, imprenditore pisano, uno degli indiziati, accusa il Partito Democratico. "Mi ha usato come un bancomat, ho perso quattordici milioni, ora sono accusato di bancarotta". L’Unità ha cessato da tempo le pubblicazioni e lui, munifico quanto sensibile ai temi della sinistra, si ritrova con una richiesta di rinvio a giudizio per il crac dell’editrice Nie Spa.
"Bancarotta fraudolenta fraudolenta aggravata e preferenziale", ribadiscono i magistrati, senza alcuna ombra di dubbio. Maurizio Mian e altri undici. Renato Soru, proprio lui, il fondatore di Tiscali già governatore della Sardegna, all’epoca socio della Nuova Iniziativa Editoriale. La Procura contesta a Soru lo stesso reato attribuito a Mian. Poi, l’attuale moglie di Mian, Olga Pryshchepko, ucraina, e la ex, Carla Riccitelli, pisana. Maurizio Fago, imprenditore romano; Fabrizio Meli, sardo, presidente di Nie Spa; Antonio Mazzeo, pisano, consigliere regionale del Pd e consigliere della Nuova Iniziativa Editoriale. Edoardo Bene, cagliaritano, Carlo Ghiani e Gianluigi Serafini, tutti consiglieri Nie. Sandro Pontigia, commercialista viareggino, anche lui consigliere della Nuova Iniziativa Editoriale spa, e Marco Gulli, di Milano.
Ma il Pd? Prende le distanze. "Non dirigevamo noi", giura di non aver visto e di non aver sentito neppure uno scricchiolio Matteo Orofini. Come uomo addetto alla sorveglianza della linea del quotidiano fondato da Antonio Gramsci lo aveva inviato Pierluigi Bersani. "Mai avuto contezza del crac e di possibili illeciti. Non mi sono mai occupato di conti. E meno male, non ne avrei avuto le competenze. Ho fatto studi archeologici". In piena coscienza, Orofini si chiama tranquillamente fuori. "Io ero responsabile di cultura e informazione del partito. Non mi sono mai occupato della parte gestionale. Interloquivo con il direttore e la società su progetti che dovevano aiutare il giornale ad incrementare le vendite. Facevamo promozioni e sinergie miranti a invogliare gli iscritti al Pd ad abbonarsi al giornale".
Mente i conti dell’Unità, giornale simbolo del partito con la sua storia secolare, erano ormai prossimi al baratro. "Avevamo l’assillo del Sud, dove l’Unità non esisteva. E anche al Nord il giornale era poco diffuso", intende chiarire Matteo Orofini, deputato romano cresciuto alla scuola dalemiana, poi diventato renziano e presidente dem, e infine disincantato martiniano. Maurizio Mian, nella sua memoria difensiva, sostiene che decidesse tutto il partito. "La società non la dirigevamo noi, né io né Misiano. Come dopo di noi non l’hanno diretta Bonifazi e Renzi". Matteo Renzi, infatti, non si è mai occupato dell’Unità. Se non nella scelta dei direttori. "Le decisioni politiche erano comunque sganciate da quelle economiche e societarie".
Ma le precisazioni che arrivano dall’entourage di Renzi non tengono conto di un fatto fondamentale. Nel Cda, all’epoca di Bersani, c’era un fedelissimo proprio di Renzi, Antonio Mazzeo. Uno dei dodici indagati. Maurizio Mian ha presentato una memoria scritta al pm. Deluso da chi l’ha illuso, sedotto, e poi abbandonato ("raggirato", scrive) precisa di aver perso una valanga di soldi "per aiutare gli amici del Pd nel salvataggio dell’Unità". Racconta di come si avvicinò e fu avvicinato dal Pd. I suoi progetti personali erano rivolti al reality televisivo; quelli del Pd avevano un disperato bisogno di soldi per il giornale di partito, sempre più debole in edicola. Era il 2011. "La successiva perdita è frutto di una gestione arrogante da parte del partito".
Mian ha investito denaro nell’operazione sotto forma di mutuo fruttifero e che i dem "non hanno onorato le garanzie". Per l’operazione venne utilizzata la Gunther Reform Holdind, società ora in liquidazione. "Il mio intervento, sollecitato dai vertici apicali del Pd, prevedeva sostanzialmente che mi limitassi a finanziare Nie. C’erano le garanzie messe dal Pd a favore della Gunther. Come è emerso, il partito non le ha onorate, come pure gli impegni assunti. Di fatto, mi ha raggirato facendomi perdere una montagna di soldi". Quanti? Quattordici milioni. Una botta tremenda anche per uno come lui, imprenditore di successo che ha fatto fortuna nell’immobiliare cash con la vendita dell’azienda farmaceutica di famiglia al colosso Big Parma americano.
L’ex direttore dell’Unità, Concita De Gregorio, sta pagando per tutti. L’editore è fallito, non salda, e lei, responsabile in solido, viene citata in tribunale. Spariti i dirigenti Pd dell’epoca, Concita De Gregorio combatte in solitudine la sua battaglia. La stessa situazione che sta vivendo Mian. L’addebito che l’accusa fa a tutti gli amministratori Nie è di "non aver ridotto i costi fissi del giornale, con i debiti cresciuti da 16 a 26 milioni, continuando fra l’altro a stampare 65mila copie, a fronte di una vendita di 18mila". E non solo. La Procura sostiene che gli amministratori avrebbero omesso di sciogliere la società malgrado, alla chiusura dell’esercizio 2013, il capitale sociale risultasse azzerato. Un "accanimento terapeutico" che ora diventa un processo per bancarotta. Mai nella storia un giornale ha avuto in Italia un simile refuso. Quello dell’Unità è servito a calpestarla, la storia.
Franco Esposito