Raffaele Cantone lascia la guida dell’Anac prima della naturale scadenza del 2020. Non lo fa perché ritiene di avere assolto al suo compito. Tutt’altro! La corruzione assicura, non è debellata. Carlo Cottarelli è stato commissario per la spending review, ai tempi del governo Letta. Anche lui senza troppa fortuna, in compenso è diventato noto anche all’opinione pubblica più vasta e, agli inizi della legislatura, ha rischiato addirittura di ricevere dal Presidente Mattarella il mandato per la costituzione di una sorta di governo ponte. I casi Cantone e Cottarelli sono tanti in Italia. Scommesse legate a una figura più o meno prestigiosa, che vengono puntualmente perdute, al di là di impegno e meriti dei personaggi in questione. La creazione di super poteri e di commissari, di tavoli di lavoro, di enti di nuova concezione, a volte produce anche qualche effetto limitato.
Nel caso di Cantone, ad esempio, come trascurare l’apporto dato alla positiva conclusione di eventi come la milanese Expo o, in micro dimensione, come la partenopea Universiade? Ma l’obiettivo fondante, la ragione per la quale si è compiuta la svolta, è stato messo in atto il tentativo, ci si è affidati al taumaturgo di turno, restano al livello di pia intenzione. La corruzione continua a spadroneggiare nell’ambito delle relazioni pubblico privato. L’andamento dei conti pubblici non solo segna rosso stabile, ma si caratterizza per una progressiva discesa verso un default sempre valutato come impossibile, eppure realisticamente concepibile, per un Paese che perde colpi nei confronti dei partner europei e che anche quest’anno si avvia a un sostanziale ristagno (pil + 0,1%).
La bonifica di Cantone si è bloccata quasi sul nascere, la razionalizzazione dei costi e i tagli delle spese inutili che avrebbe dovuto garantire Cottarelli non solo non hanno avuto riscontri, ma sembrano essere l’ultimo dei pensieri della classe politica e del cittadino elettore. Il fatto è che le scelte vere creano contrapposizione. Proporsi di risolvere un problema senza colpire nel vivo gli interessi di qualche corporazione o di determinate fasce sociali, significa essere ingenui nel migliore dei casi. Nel peggiore, vuol dire essere in mala fede. Forse è il caso di cominciare a ragionare in questi termini anche per la questione meridionale. Investire decisamente sul Mezzogiorno comporterebbe il venir meno di un rapporto Nord-Sud per molti versi assimilabile a quello di un Paese egemone nei riguardi di una propria colonia.
GIOVANNI LEPRE