Uno dei tesori nascosti dell’Uruguay sono i suoi frutti autoctoni, incredibilmente dimenticati nelle abitudini di una nazione costruita dagli immigrati europei, in maggioranza italiani e spagnoli. Il lavoro quotidiano di Laura Rosano, agricoltrice e coordinatrice uruguaiana per Slow Food, è proprio quello di cercare di riscattare questi frutti poco conosciuti attraverso numerose iniziative che coinvolgono scuole e più in generale la società. L’elenco è lungo: il più famoso è il guayabo (una sorta di kiwi) ma ci sono anche arazá (amarillo e rojo), butiá, guaviyú, pitanga. E poi ancora: quebracho, arrayán, tala, aguaí, higuerón, chañar, ubajaí, guabiyú, mataojo, algarrobo, tarumán, yatay.
Fin da bambina, l’attivista uruguaiana ha imparato a conoscere i sapori e le caratteristiche di tutte queste piante. Crescendo e iniziando a occuparsi professionalmente di gastronomia e nutrizione, si è impegnata nel cercare questi frutti, ripiantarli, coltivarli e valorizzarli in cucina. Ecco perché recentemente ha ottenuto un importante riconoscimento in Italia: il premio "Coltivare e custodire". Il premio, giunto alla sua seconda edizione, è organizzato in Piemonte dall’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e dall’azienda vitivinicola Ceretto. Le protagoniste dell’ultima edizione sono state diverse donne, provenienti da varie parti del mondo e dedite alla produzione di cibo sostenibile in difesa dell’ambiente. "Fare uscire i frutti autoctoni dal dimenticatoio è un compito lungo e difficile ma qualcosa sta iniziando a cambiare" dice con ottimismo Laura Rosano intervistata al suo ritorno dall’Italia. Chef con un’esperienza ultra ventennale, direttrice di Verde Oliva, un’azienda che fa ricerca e promuove l’utilizzo di prodotti locali attraverso laboratori didattici, Rosano insiste sul concetto di educazione come arma principale per trasformare la società attraverso un consumo responsabile in questa prima tappa: "Tanta gente ignora il fatto che i nostri frutti hanno tantissime vitamine e proprietà antiossidanti. Per questo è fondamentale cominciare a portarli nelle scuole, diffonderli e farli conoscere alla gente che pian piano sta iniziando a scoprirli e ne resta favorevolmente sorpresa. Sia chiaro tutto questo noi lo facciamo da soli, non riceviamo nessun aiuto da parte dello Stato anche se stiamo riaffermando la nostra identità gastronomica".
Secondo l’autrice del libro "Recetario de frutos nativos del Uruguay" attualmente "sono ancora pochi i produttori" di questi frutti che "hanno bisogno di crescere ma io prevedo che nei prossimi anni si potranno vedere i primi risultati". L’unica raccomandazione da fare è che "si tratta di piante molto delicate" ma questa avvertenza esclude il guayabo, la principale scommessa nel futuro di questi "vecchi" frutti autoctoni. "L’obiettivo" -precisa contrastando la visione tipica degli affari in Uruguay- "non è quello di esportare all’estero questi prodotti. A noi basta che arrivino nelle scuole e che possano essere consumati dai nostri ragazzi come merende naturali rispetto agli alimenti ultra-processati. Questo sarebbe il premio più bello".