Le due Italie che domineranno la nostra vita e la vicenda politica del nostro paese nei prossimi mesi, si sono palesate. Da una parte quella vocale, arrabbiata, della Pontida di Salvini. Dall’altra quella dei retroscena stampa, dei tweet, delle lettere con cui si fa sentire l’appena formato governo. La prima è sudata, scomposta, realissima nella sua protesta. L’altra è accorta, cerebrale, incorporea, avvolta intorno a strategie. Entrambe sono inquietanti per il loro intreccio, oltre che per la loro differenza. Dire infatti che è in questa morsa che vivremo nei prossimi mesi è tutt’altro che una esagerazione. Alla sua prima ‘conta’ popolare Matteo Salvini gioca in casa. Il pratone di Pontida è pieno ogni anno, ma questa volta è il pubblico delle grandi occasioni, per numero e tensione. Il leader ha dato il meglio che poteva, e forse quello che poteva era ancora condizionato dal trauma della "cacciata" dal governo, e la lingua batte infatti dove c’è ancora dolore, con la tirata contro il premier traditore, i 5 stelle e Pd poltronari.

Ma attenti a non vedere anche il cambio di passo. Ancora affaticato, rintronato forse, Salvini ripesca e rilancia a Pontida la parola d’ordine originaria del primo leghismo, che fece tanta paura allora e dovrebbe certo farne ancora adesso: "Disobbedienza". Quella bandiera contro le leggi dello Stato costruite a Roma, con cui il Bossi della prima ora tenne sul filo le istituzioni nella prima parte della seconda Repubblica, con una determinazione che non esitò a declinare in un "prenderemo i fucili" pur di ottenere la secessione. Salvini a Pontida non abbraccia una linea radicale. Il suo è un "useremo tutti gli strumenti che la democrazia mette a disposizione", ma l’appello alla disobbedienza è articolato lungo tutta la linea istituzionale. Va dal partito, ai governatori: "Se cinque Regioni chiedono un referendum, non è una decisione di qualcuno sulla piattaforma Rousseau: si deve votare", dice riferendosi alla intenzione di "abrogare la parte proporzionale della legge elettorale per trasformare il nostro sistema in un sistema in cui chi prende più voti governa"; e arriva ai sindaci che "hanno il diritto e anche il dovere di opporsi a tutto quello che va contro gli interessi della loro collettività".

L’idea è quella di utilizzare ogni potere a disposizione a favore dei propri cittadini. "Per esempio", continua, "se un prefetto ti chiama e ti dice che devi accogliere 50 immigrati, gli si risponde con un garbato "no, grazie, non posso". Una risposta garbata, certo, ma non per questo meno esplosiva, se ci si dovesse arrivare. Posso anticipare i commenti della sinistra: "Vabbè, è Salvini no? È quella cultura della forza, dello scontro, degli urli a Gad Lerner quando arriva a Pontida. È quella tensione anti-istituzionale, che ha dato forma alla rinascita della destra. Insomma, è la ragione per cui abbiamo alla fine fatto questo accordo Pd/5stelle, che tanti ora ci rimproverano, ma che era, come si vede, necessario". Necessario, forse, o magari certo. Ma efficace?

Passata la fase dei dubbi, del "perdiamo di più se si va al voto o se si fa l’accordo", il governo giallorosso si misurerà da ora con una domanda ben più sostanziale: è stata una scelta giusta? Laddove il "giusto" in politica si declina con altre parole: sarà una soluzione che funziona, servirà a tenere a bada Salvini e i suoi leghisti? Per il momento, tuttavia, la sfida appare già abbastanza impari. Il governo giallorosso pare intanto impegnatissimo soprattutto a dipanare il proprio equilibrio, focalizzato soprattutto a consolidare la propria esistenza, con un lavoro tutto concentrato su percorsi istituzionali, equilibri numerici parlamentari e partitici. La prima barriera su cui sta mettendo sacchetti di sabbia è anche il primo ostacolo: le elezioni regionali in Umbria, il 27 ottobre. Voto che Salvini ha giurato di "Vincere!" (ebbene sì, questo uomo non finisce mai di cadere nelle citazioni sbagliate). E il governo deve temere tanto questa sconfitta, se è vero che appena fatto l’accordo di governo, ha aperto il file di un secondo accordo fra Pd e M5s – quello per le regionali.

L’idea nata dal Pd, è stata sdegnosamente respinta dal capo politico dei pentastellati, Luigi Di Maio, che però, come è sua recentissima abitudine, ci ha ripensato subito. Nello stesso giorno di Pontida l’Italia che segue la politica ha potuto leggere sulle colonne del quotidiano la Nazione la proposta, a firma del ministro degli Esteri, di "un patto civico per l’Umbria", in vista delle Regionali. Patto così presentato: "Tutte le forze politiche, facciano un passo indietro e lascino spazio a una giunta civica, che noi sosterremo solo con la presenza in consiglio regionale, senza pretese di assessorati. Ognuno correrà con il proprio simbolo in sostegno di un presidente civico, fuori dalle appartenenze partitiche, e con un programma comune". "Alleluja" ha risposto in coro il Pd, nei suoi vari articolati, da Zingaretti a Franceschini, fino all’ex Pd e ora forse un futuro Pd di ritorno, Roberto Speranza ministro della Sanità in quota Leu. La serie degli appuntamenti alle urne locali, recitata con goduria da Salvini a Pontida, rischia di essere una Marcia della morte per una coalizione appena nata.

L’idea di accordi forti sarebbe una manna dal cielo per curare questa fragilità del governo. Non solo da parte del Pd, che guida oggi l’Umbria e varie delle regioni in cui si voterà, tra cui la più rilevante, l’Emilia Romagna. Il repentino cambio di Di Maio, bruciato dai risultati delle ultime regionali, riflette infatti la stessa paura. Può funzionare questa soluzione? Il dubbio non è eccessivo. Se si legge bene la lettera di Di Maio infatti, c’è un passaggio che fa capire con quale spirito l’accordo viene proposto. Le elezioni regionali in Umbria sono, argomenta il ministro, "un appuntamento importante anche perché si arriva in anticipo a questa data in seguito a uno scandalo che ha coinvolto direttamente la giunta uscente, ma che, soprattutto, ha colpito i cittadini che si affidavano a una sanità travolta da uno scandalo di corruzione". In pratica, il capo politico dei 5stelle offre ai Pd un accordo accusandoli di essere corrotti, e dunque i veri colpevoli della futura sconfitta, nel caso.

Esattamente lo sprezzo con cui al momento (si spera diversamente per il futuro?) i 5 stelle stanno in questa coalizione. D’altra parte, anche il fronte interno del Pd rimane agitato. La grande sceneggiata del Partito Renziano si avvia al suo culmine con l’avvicinarsi della Leopolda. E, anche se il passato autorizza a non credere alle anticipazioni troppe volte anticipate, di una scissione, il movimento sismico nel governo è continuo. In gioco è chi davvero ha la golden share della coalizione. Ansia che porta a una uscita in direzione di una nuova legge elettorale, in senso proporzionale puro. L’unica legge che permetterebbe a tutti e ciascuno di avere un ruolo in futuro nel governo, non importa quanto piccola sia la propria quota. Sulla carta, anche questa, una manna. Ma con quali conseguenze sulla forza delle istituzioni del paese? Questa è la fotografia dell’Italia di oggi. Una parte su un prato, sconfitta, impegnata a gridare al cielo la propria voglia di vendetta. L’altra a tavolino, impegnata a trovare soluzioni di potere durature, per resistere e operare. Quale sarà la più forte? È la scommessa che in un senso o nell’altro stravolgerà, ancora una volta, nei prossimi mesi, le nostre vite.

LUCIA ANNUNZIATA