Penso che spetti a noi, impegnati a vario titolo nella battaglia politica, riprendere il grido di allarme del Presidente Mattarella. L’azione militare avviata da Erdogan e tollerata inizialmente dagli Stati Uniti va fermata. Se non vuole essere marginale, accettando di essere travolta dall’incapacità ad agire secondo un principio di responsabilità, l’Europa deve far sentire il peso della sua concreta reazione. Almeno le parole spese finora hanno dato comunque un’idea di unità e di fermezza. Ma non bastano più. Serve uno slancio forte e determinato, altrimenti la spirale del conflitto diventa inarrestabile.
Cosa fare? È stato detto che l’ipotesi di buttare la Turchia fuori della Nato non ha realisticamente una base di fattibilità. Il Trattato prevede che l’uscita abbia come riscontro una valutazione unanime degli Stati aderenti all’Alleanza, con tempi e procedure non d’immediata esecutività. Anche se fosse la Turchia a dichiarare la volontà di recedere dal patto militare, occorrerebbe far trascorrere un anno. Vero è, altresì, che una rottura di questo tipo aggraverebbe i problemi, non risolvendone alcuno: la "questione curda" diventerebbe ancora più esposta allo scontro di potenze regionali e all’influenza, nel delicato scacchiere medio orientale, della Russia e degli Usa, nonché adesso anche della Cina, sia pure in misura più contenuta.
L’Europa non può stare a guardare. Pensare che la sua funzione sia di sostituire sul campo un’America isolazionista, è certamente velleitario e improduttivo. Ma la diplomazia del fare - ammesso che sia un fare non puramente estetico - attraverso i colloqui bilaterali con Trump, non garantisce che il peso dell’Unione abbia a manifestarsi con maggiore efficacia. Nel campo della politica di difesa, l’asse franco-tedesco non assicura all’Europa il necessario potere di interdizione. Anche in questo passaggio, di fronte al possibile massacro di civili curdi, si evidenzia il ritardo con il quale si è affrontato in passato e si continua ad affrontare il tema della comune operatività militare a scopo difensivo e per azioni di peace keeping.
Alla minaccia di aprire le porte all’invasione dell’Europa da parte di 3.5 milioni di profughi siriani, non si risponde con lo sdegno che sa di preoccupazione e disorientamento. La Turchia può anche minacciare, certo, ma non è in condizione di reggere alla "forza di persuasione" dei 28 Paesi dell’Unione. L’Italia, a tale riguardo, si trova fatalmente in prima linea. I Curdi vanno protetti perché sono stati al fianco dell’Europa e dell’Occidente, hanno combattuto per il mondo libero la guerra contro l’Isis, si sono dimostrati fedeli agli impegni presi con la comunità internazionale.
Abbandonarli al loro destino sarebbe un atto di cinismo, che attesterebbe quanti danni abbia provocato, non soltanto ora con l’avvento di un Presidente ostile alla funzione stabilizzatrice degli Usa nella politica mondiale, una visione distorta delle relazioni tra le due sponde dell’Atlantico, fino al punto di separare, almeno psicologicamente, il Vecchio dal Nuovo continente. Era pericolosa fin dalle origini, quando nella vicenda della prima guerra del Golfo si teorizzò l’alleanza dei soli "volenterosi", la moderna dottrina del sovranismo unilaterale, ma adesso ne vediamo ingigantite le ombre, tanto da rappresentare agli occhi di tutti quanto siano elevati i rischi di una progressiva e silenziosa liquidazione della solidarietà atlantica. A chi giova?
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