"Ao’, quello che te sto a dì è Cassazione!". Così "Er Monnezza" (il commissario Nico Giraldi di Tomas Milian) quando voleva mettere a tacere chi la pensava diversamente. Proprio quel che i latini esprimevano dicendo che la Cassazione "facit de albo nigrum" oppure "aequat quadrata rotundis". In parole povere, quando la Cassazione sentenzia, il discorso tecnico-giuridico è definitivamente chiuso. Può però accadere che la Cassazione si esprima più volte, contraddicendosi, sullo stesso caso. E allora? A quale Cassazione credere? Per convenzione l’ultima cancella le altre. Per cui, nel caso di "mafia Capitale" a prevalere è la Cassazione del 22 ottobre, che ha escluso la configurabilità della mafia non ravvisando gli estremi del 416 bis. Il che non impedisce di rimarcare che a questa conclusione si è arrivati con un percorso che definire tortuoso e accidentato è davvero assai riduttivo.
Procura e Gip (dicembre 2014) non avevano dubbi: è mafia! E la Cassazione confermò la tesi in sede di convalida degli arresti. Ma in Tribunale (luglio 2017), ecco il ribaltone: non è mafia! Brutti figuri, certamente responsabili di gravi reati, ma non mafiosi. Frattanto, varie sentenze anche di Cassazione, relative a casi analoghi a quello di Roma, avevano ribadito la tesi della mafia. Così, anche per Roma, la Corte d’Appello (2018) poté sentenziare: è mafia! Ma la Cassazione (e siamo arrivati a oggi) rovesciando questo verdetto è tornata alla tesi del Tribunale: non è mafia! Com’è possibile che gli stessi identici fatti portino a decisioni giurisprudenziali altalenanti ed opposte? Dire che è fisiologico - perché è lo stesso sistema a prevedere verifiche successive attraverso più gradi di giudizio - è vero, ma non basta. Nel caso di specie il vero nodo dei problemi è lo scontro fra "due culture".
Secondo la prima, mafia è solo quella tradizionale (coppola e lupara, aree geografiche storicamente circoscritte, affiliazioni rituali, spreco di violenza esibita…). Per la seconda, invece, possono esserci anche "nuove" mafie, come sarebbe appunto quella di Roma: autoctona ed originale, fondata sul "carisma criminale" dell’estremista nero Massimo Carminati e sulle pratiche corruttive che pilotavano gli appalti, avvantaggiando in particolare le cooperative "rosse"; con una "riserva di violenza" da utilizzare quando necessario. Quale "cultura" è più giusta? Ovviamente il problema va risolto in concreto, caso per caso, (e sarà interessante leggere la motivazione dell’ultima Cassazione). In generale, per altro, non si può non osservare che ontologicamente la mafia è in continua evoluzione. Cambia pelle come un camaleonte, per potersi adattare (mimetizzandosi) alle esigenze di tempo e di luogo in cui volta a volta opera, così da conseguire il massimo profitto delle sue imprese criminali. Guai pertanto a fossilizzarsi su vecchi schemi. Sarebbe come ignorare il Dna della mafia.
Al riguardo merita ricordare un’altra sentenza della Cassazione, certamente non estranea al tema ora in esame. Si tratta di una pronunzia del 2015 riguardante il processo "Minotauro" (insediamenti della ’ndrangheta nella provincia di Torino), secondo cui è mafia a tutti gli effetti, pienamente rientrante nel 416 bis, anche la cosiddetta "mafia silente". Quella cioè che intimidisce e assoggetta, non con manifestazioni criminali eclatanti, ma con "il non detto, il sussurrato, il semplicemente accennato", quando ciò si ricolleghi a un potere criminale che fa paura ed è ben presente nella coscienza collettiva. Gli interrogativi di mafia Capitale potrebbero pertanto ridursi a questo: anche il "carisma criminale" e la "riserva di violenza" di cui abbiamo parlato sono configurabili come declinazioni della cosiddetta "mafia silente"? O no?
Giancarlo Caselli