Fine del socialismo in tutta l’America Latina, fine dalla guardia yankee nell’ex “giardino di casa”, con il Trump dell'”America first” ritirato dietro il muro messicano.
Fine del castrismo, germe de izquierda total e ko del Bolivarismo, la religione socialista affondata nella miseria a Caracas nel Venezuela morto di fame e terrore.
In piena estate australe in America Latina, nei suoi paesi così diversi e così uguali, i drammi politico sociali infiammano capitali, periferie tumultuose e grandi spazi perduti, dalle foreste amazzoniche in fumo sotto il ghigno del presidente-dittatore Bolsonaro, alla pampa gallega abbandonata, ai ghiacci cileni di Puerto Montt, alla Patagonia venduta a pezzi ai cinesi, risalendo per la Bolivia oramai sotto dittatura permanente, fino alla strage dei candidati alle elezioni amministrative nella Colombia del fu grande scrittore Garcia Marquez.
In Perù tre ex presidenti arrestati, in Ecuador la capitale spostata dopo grandi disordini di piazza da Quito a Guajahill, fino ai cinque milioni di venezuelani scappati oltre confine verso altre miserie, ma almeno per mangiare.
Nessuno si salva nel terzo Millennio nell’America del Sud, non ci sono più patriarchi o colonnelli, caudilli o regimi militari o paramilitari, ma democrazie corrose da populismi e peronismi, ex capitani dell’esercito da ex squadra della morte diventati presidenti, ma con la pistola nel doppiopetto, sovranismi da operetta, che i nostri di sovranismi, accennati in Europa, sembrano seri al confronto.
Ci vorrebbe la penna del Gabo-Garcia Marquez per raccontare il tracollo del subcontinente sud americano, non solo del cono sud ovest, quello di Brasile e Argentina, nei decenni il più terremotato, ma dell’intero continente chiamato America del Sud, perchè tutto trema in convulsioni un po’ inattese, un po’ esiti di processi lunghi, ai quali la fine del “protettorato”yankee, ma anche del socialismo in salsa sudamericana, con bolivarismo e castrismo incorporati, ha dato il colpo di grazia.
Il più inatteso è il crack del Cile, a trent’anni dalla fine della dittura del generale Augusto Duarte Pinochet.
Sembrava che questo paese, lungo e stretto, dal deserto della Serena ai ghiacci del Polo Sud, oltre gli avamposti di Puerto Montt avesse imboccato una via tranquilla allo sviluppo in una democrazia ricostruita, un po’ dalla presidente -“mamma” Bhachelet, un pò dal liberalismo annacquato di Pineda, una specie di Berlusconi cileno.
Dopo il golpe sanguinoso dei militari che, marciavano per le avenidas di Santiago con il passo dell’oca alla moda nazista, l’instaurazione di un modello economico alla Chicago Boys, ispirato da Washington e dai consiglieri di Kissinger, aveva alla fine prodotto una processo economico virtuoso, continuato meglio quando i militari se ne erano andati e la loro scia di sangue era stata cancellata.
Era il Paese che aveva in tutto il sub continente la migliore e più stabile crescita, ma è saltato in aria come un tappo, con la rivolta degli studenti, quasi venti morti in piazza, un lampo nella tempesta sudamericana.
Cosa era successo per spingere decine di migliaia di ragazzi a ribellarsi per una banalità come l’aumento del biglietto del metro?
Era successo che improvvisamente la povertà diffusa a strati nel Paese ha incominciato a non trovare più risposte nelle politiche di Pineda e la piazza ha preso il sopravvento, al punto che Santiago si è militarizzata come con il regime militare e il “toque de queda”, il coprifuoco è stato esteso a tutto il paese.
Non è servita neppure la retromarcia del governo, oramai il paese è in rivolta.
La troppa assuefazione alle commodityes ha spinto il Cile, ancora il primo produttore di rame al mondo, alle dipendenze estere.
Ma con la flessione dei mercati mondiali la ricaduta ha stracciato le condizioni di vita del pueblo.
Altro che l’aumento della metro di 30 pesos, i cileni sopportano da tempo aumenti vertiginosi del costo dell’elettricità, di tutto il costo della vita, in un paese dove i reddito medio non sale oltre i 500 dollari.
E allora rivolta!
Come dire: sperperate le riserve del sottosuolo, che resta a un’economia semplice, piena di deficit, superinflazionata?
L’Argentina, che è al di là delle Ande e che mentre il Cile anni Settanta finiva sotto il tacco di Pinochet era nell’incubo della giunta militare di Videla, tra i drammi dei desaparecidos e la guerra a “los ingleses” della Margaret Thatcher per le isole Flakland, non è neppure uscita dai regimi militari confortata da un riavvio economico in qualche modo “controllato” dagli Usa.
Il paese potenzialmente più ricco del mondo per le sue risorse naturali e le materie prime, dalla prosperità della terra , ai tesori sotto i ghiacci del “mundo alla fine del mundo” patagonici e oltre, fino ai grandi fiumi, riacquistata la libertà dal terrore si è dondolata per decenni tra le illusioni desarolliste di leader per bene come il repubblicano Alfonsin fino a caricature di stampo diverso dell’indimenticabile generale Peron
Quest’ultimo è l’inventore della sua dottrina, appunto peronista e della sua politica populista, descamisada, sbracata e dei suoi sciagurati epigoni: dalla evanescente Isabelita, seconda moglie dopo la mitica Evita, in avanti con Menem e infine con la coppia fatale dei coniugi Kirckner, prima lui, Nestor, poi lei, la moglie, la fatale Cristina, quella che non voleva neppure fare l’inchino al nuovo papa Francesco, eletto papa a Roma, arrivando dalla periferia di Buenos Aires.
Oggi questa terra, patria del papa, del tango, danza perfetta per questa terra che va a scatti come i suoi passi vertiginosi rischia il casquet ogni venti anni.
Ciò vuol dire che ogni venti anni va in default tra debiti internazionali e inflazioni da delirio. Poi si illude di risollevarsi, rinegoziando con un altro presidente, avanti il prossimo, i suoi leggendari deficit, con nuovi leader estratti per la bisogna da aree politiche sempre secondarie ma pronti a farsi ringhiottire dall’ultime edizione del peronismo 3.0, 4.0, 5.0.
Oggi siamo probabilmente al peronismo 6.0, calcolando nei precedenti Peron stesso, Isabelita, il suo attendente, il dentista Hector Campora, poi, dopo l’abisso militare e assassino, Menem, peronista ecumenico, i due Kirckhner, marito e moglie e ora Alberto Fernandez, che sta per sconfiggere Mauricio Macri, origini calabresi, liberal, ex presidente del Boca Junior, star del calcio porteno e della regione di Baires che per cinque anni ha tentato un progetto liberista e una rinegoziazione colossale del debito argentino con il Fmi in cambio di austerity che ora sta naufragando.
Oggi in Argentina c’è una vera emergenza alimentare, il paese è alla fame, escono statistiche sui pasti dei bimbi che non riescono a nutrirsi nella media nazionale più di una volta al giorno. Il 35% della popolazione è considerato povero. La rata che doveva essere pagata al Fmi in settembre era di 5,4 miliardi di dollari a fronte dell’ultimo prestito concesso nel 2018 di 54 miliardi.
I ministri dell’economia cambiano a ogni soffio di “pampero”, il vento che arriva dal Sud. La vendita di immobili, macchine, attrezzature è paralizzata da mesi. Viaggiare in automobile è un incubo, perchè non si trova benzina da nessuna parte. I rumors parlano di “pesificazione” dei depositi in dollari, del divieto di acquisto di valuta estera e di portare fuori dall’Argentina dollari o euro. In questo quadro Fernandez, che è una testa di paglia della diabolica Cristina Kirchner, candidata vice presidente, scampata a ogni possibile fine, compresa quella giudiziaria, dove c’era anche il reato di riciclaggio e di corruzione, è quasi sicuro di uscire vincitore cavalcando l’ultima edizione del peronismo, una religione criolla che ha i suoi adepti sopratutto nelle periferie urbane e rurali di un paese immenso ma che sfavilla anche nelle ville faraoniche di Olivos, nei quartieri dorati sul fiume Tigre a Buenos Aires.
Cristina ha oggi 65 anni e una carriera da regina, da giovane avvocato a moglie di Nestor, quindi first lady all’inizio degli anni 2000, direttamente passata per diritto dinastico al trono della casa Rosada, dove nel 2010 ha calzato la corona di seconda regina di una paese, capace di tutto e del contrario di tutto, una politica fiscale pesante, leggi durissime sull’importazione e anche la concessione dei matrimoni omosessuali.
In un paese come la cattolica Argentina, che stava per esprimere il Romano Pontefice, Francesco, da cui l’ha sempre diviso una esibita antipatia.
Mentre Buenos Aires esultava per il sacro soglio conquistato da un suo figlio ( di origini solidamente italiane, ma nato in riva al Rio de La Plata) Cristina è stata l’ultima dei capi di Stato a riverire il nuovo papa. Fernandez ha vinto le Primarie del 11 agosto, “stracciando” Macri e ha così messo una ipoteca pesantissima sul voto di ottobre, che agli occhi dell’intero Continente americano è l’ultima barriera contro le ipotesi dittatotrial populiste che stanno governando tutta l’area.
Se anche l’Argentina e il Cile svoltano verso questa deriva, che per Buenos Aires è come una religione di maggioranza nella sua storia recente, allora tutto il Sub continente si può considerare perduto.
Evo Morales in Bolivia con un trucco si è intascato il mandato presidenziale, facendo sparire i risultati elettorali e poi facendoli riapparire con lui vincitore. Neppure il dittatore per eccellenza della storia sudamericana, il paraguiano Stroessner della dittatura record per durata, tra gli anni Sessanta-Novanta, era capace di tanto.
La “piazza” ribalta l’Ecquador e i palazzi tremano a Lima e a Cartagena, mentre in Venezuela tra fame e paura, la vita è durissima. Nel 2018 sono state uccise più di seimila persone in via extragiudiziale nel corso di operazioni di polizia definite casi di “resistenza all’autorità”.
Nel 2019 il numero supera già i duemila con questa motivazione agghiacciante, che la dice lunga sul regime di terrore che Maduro mantiene in piedi, mentre almeno 7 milioni di venezuelani sono già scappati dai confini cercando non tanto la libertà quanto un pezzo di pane. Non male per un paese che ha vissuto nel credo dei libertadores come il mitico Simon Bolivar. Libertà da che per il Sud America?
FRANCO MANZITTI