Dopo la presa di potere del 1933 i nazisti si sbarazzavano degli oppositori politici spedendoli su una chiatta arrugginita a Bremerhaven, sessanta chilometri da Brema, sulla foce del Weser, nel nord della Germania, chiamata "Nave degli spettri" per i lamenti delle vittime che si levavano da quella nave. Qui le vittime venivano sottoposte a vari tipi di torture. La storia è stata ricostruita dallo Spiegel Online, tramite il libro di uno scrittore e giurista locale, Manfred Ernst. Una storia che però era rimasta sconosciuta dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. È stata la testimonianza di una delle persone deportate sulla chiatta e sopravvissute a riportare alla luce la vicenda. Si tratta di Willy Vogel, un uomo deportato sulla nave in un pomeriggio del luglio 1933, quando quattro uomini delle SA, le "squadre d'assalto" del Terzo Reich, gli chiesero se fosse comunista e lui rispose di sì. Per tutta risposta i nazisti lo insultarono, ma da quel momento Vogel non potè più rispondere a nessuna domanda: due ore più tardi infatti il suo volto fu ridotto in pezzi e non potè più parlare.
A quel tempo Vogel aveva 26 anni e fu arrestato; tornò tre volte sulla 'barca degli orrori', come altri uomini, che quando venivano liberati non venivano riconosciuti nemmeno dalle loro mogli. Almeno tre dei prigionieri cercarono di togliersi la vita, molti morirono a causa delle torture. A ideare il sistema ma anche a consentire che dopo un certo periodo di prigionieri venissero consegnati fu il generale e ministro del Reich Herman Goering, poco dopo aver preso il potere nel partito nazionalsocialista. La denuncia di Ernst riguarda anche la sostanziale passività della popolazione fronte alle torture: "La resistenza nel porto di Bremerhaven non ci fu affatto, perché i socialdemocratici se ne stavano rintanati nel loro orticello e il popolo non si oppose" scrive. "Coloro che portarono avanti la resistenza con volantini e giornali clandestini furono i comunisti, e questi ne pagarono il prezzo".
Come Willy Vogel, che nel libro di Ernst racconta che perfino il carceriere, nel vedere come era ridotto, pianse. Vogel fu anche prigioniero, successivamente, nelle carceri della polizia, dove gli fu concesso coprirsi il volto in modo tale che gli operai del porto non vedessero le ferite. "Le persone che abitavano nella zona portuale addirittura si lamentavano, ma non perché in quella barca c'erano uomini che venivano torturati, ma perché erano turbate dalle urla", denuncia ancora lo scrittore. La stessa imbarcazione, a sua volta, era un relitto della prima guerra mondiale, costruita nel 1918 per navigare sul fiume e chiamata Peilboot III. All'interno, oltre a varie stanze degli orrori, c'era anche una stanza per gli interrogatori in cui veniva chiesto, come è stato fatto con Vogel, ai sospettati quali fossero le loro idee politiche. Se la risposta era quella sbagliata venivano martoriati.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale nella memoria della città nessuno ricordava o voleva ricordare quello che era avvenuto sulla 'Nave degli spettri'. Sono stati gli americani a svelare i crimini commessi sulla barca durante il periodo del nazismo. E uno degli assistenti che esaminavano i prigionieri, Karl Mueller, che dopo la fine della guerra passò dalla parte opposta e fece nomi e racconti. Dei 49 accusati da Mueller nel processo aperto contro di loro, solo 11 sono stati condannati. A ricordare il martirio di Willy Vogel e dei suoi commilitoni rimane oggi una piccola effigie: appena 26 parole scolpite nel marmo su ponte tra il nuovo e il vecchio porto di Brema. "Si vedono a malapena" è la denuncia dello scrittore che ha portato alla luce la vicenda.
Maria T. Santaguida