Gente d'Italia

La Grande Guerra: dall’estero tornarono oltre 300mila italiani per combattere, 50mila solo dall’Argentina

Dopo i numerosi eventi organizzati anche all'estero per commemorare il centenario del conflitto del ‘15-‘18, quest’anno, in occasione della Giornata delle Forze Armate, sarà Napoli ad ospitare la manifestazione conclusiva oggi, 4 novembre. Una data che dal 1919 celebra le Forze Armate in ricordo dell’Armistizio di Villa Giusti che segnò la fine della Grande Guerra e la vittoria dell’Italia. L’armistizio venne firmato il 3 novembre ed entrò in vigore proprio il 4 novembre: erano necessarie 24 ore per informare tutti i reparti. Fu la voce di Armando Diaz a leggere alla radio il bollettino n. 1268, definito "il bollettino della vittoria", scritto, sembra, da Ugo Ojetti, giornalista, intellettuale, ufficiale volontario del genio. Questa la sintesi: "La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 Maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta". E alle ore 15,00 del 4 novembre 1918, le armi sul fronte italo-austriaco, tacquero (con qualche eccezione). Finalmente! Finalmente si metteva fine ad uno scellerato conflitto che costò la vita a circa 10 milioni di soldati (650 mila furono le vittime italiane) e a 7 milioni di civili: un conflitto tra i più cruenti, che lasciò dietro di sé una scia dolorosa di feriti, uomini segnati per sempre, una "generazione perduta". Una data, quella di oggi, 4 novembre, ricca di simboli patriottici, scelta anche per la cerimonia di tumulazione del Milite ignoto, nel 1921. Ad accogliere le spoglie del soldato senza nome, il Sacello dell’Altare della Patria a Roma. I resti del Milite ignoto furono "scelti" da Maria Bergamas tra le 11 salme nella cattedrale di Aquileia. O forse fu il Milite ignoto a farsi scegliere, visto che Maria, davanti ad una bara, la penultima, "oscillando sul corpo che più non la reggeva e lanciando un grido acuto che si ripercosse nel tempio, chiamando per nome il suo figliolo, si piegò, cadde prostrata e ansimando in ginocchio abbracciando con passione quel feretro". Un feretro che Maria credette fortemente fosse quello di suo figlio Antonio, caduto in combattimento, la cui tomba in zona di guerra fu letteralmente cancellata da un violentissimo bombardamento. Numerosissimi i caduti che restarono ignoti perché, spiega lo storico Michele D’Andrea, "la piastrina di riconoscimento, un piatto astuccio di metallo, custodiva una striscia di carta con i dati anagrafici. E la carta faceva presto a deteriorarsi". Solo nel Sacrario di Redipuglia, sono oltre 60mila i caduti senza nome. Proprio alla Grande Guerra è dedicato il libro dello storico Michele D’Andrea che ha racchiuso in poche pagine, aneddoti, modi di dire e curiosità, "storie" di cui la storia ufficiale non si occupa, più attenta, più interessata all’uomo in uniforme che all’uomo dentro l’uniforme, "l’uomo che mangia, evacua, piange, ride, scrive, soffre, spettegola, uccide e muore". Un grande lavoro di ricerca, anche iconografico, ricco di racconti, lati sconosciuti di grandi personaggi, numeri, modi di dire e usi che hanno caratterizzato un periodo storico che ha segnato profondamente la vita del Paese, sotto tutti i punti di vista. Tra i tanti soldati italiani che parteciparono alla Guerra scoppiata nel 1915, anche molti emigrati. I dati parlano di 303.919 connazionali, su oltre un milione in età di leva, a scegliere di tornare per combattere, per rispondere alla chiamata della Patria. Di questi, 50mila arrivarono dall’Argentina, molti imbarcati sulla nave Garibaldi dal molo Norte del porto di Buenos Aires. Oggi a Torino, a Piazza Castello, un bassorilievo dell’artista Dino Somà ricorda proprio gli emigrati che dall’America Latina risposero all’appello e senza indugi lasciarono la loro "nuova" vita per tornare in Italia: "A gloria perenne dei prodi che accorsi dall’America Latina caddero dal 1915 al 1918 intrepidamente pugnando nella Guerra d’Italia. Pone il 12 ottobre 1923 l’Associazione Latino Americana come testimonianza eroica dell’unione vigorosa dei Latini d’Italia e d’America nei quali è uno il sangue, il genio, il cuore." Queste le parole (di Paolo Roselli), in memoria di quel sacrificio. Nel medaglione di bronzo, è raffigurato Cristoforo Colombo: il suo mignolo è diventato una sorta di portafortuna per gli studenti che, prima di un esame, lo strofinano. Una tradizione che si ripete, con convinzione, negli anni, tanto che già una volta si è provveduto alla sostituzione del mignolo del celebre navigatore. Tornarono dall’estero, e non per evitare conseguenze, non erano previste, semplicemente per difendere la loro Patria indossando la divisa grigio-verde, forse immaginando, illudendosi che il conflitto sarebbe stato breve e non certo "asprissimo". Dal porto di Buenos Aires, si imbarcò anche un Filzi, Fausto, fratello di Fabio, giustiziato insieme a Cesare Battisti dagli austriaci. Fausto, nato in Istria, si imbarcò per l’Argentina nel 1913, ma appena ricevuta la notizia della morte del fratello, nel 1916, lasciò Buenos Aires e il suo lavoro per arruolarsi volontario con l’intenzione di vendicare Fabio. La sua richiesta "il sottoscritto ha l’onore di chiedere di essere inviato in prima linea, quantunque irredento", venne accettata. In realtà, proprio in quanto "irredento", non gli era consentito andare al fronte, ma il suo desiderio di partecipare attivamente alla guerra venne esaudito. Era il 17 aprile del 1917, e per pochi giorni riuscì a combattere sul Monte Zebio. L’8 giugno morì nel corso di un’impresa che gli valse la Medaglia d’argento al valor militare per il "…costante e luminoso esempio di patriottismo e di elevato spirito di sacrificio". Un ricordo delle gesta dei fratelli Filzi, è affidato alla targa posta su quella che fu la loro abitazione a Rovereto: "In questa casa vissero la giovinezza breve Fabio e Fausto Filzi, Fabio impiccato dall’Austria con Cesare Battisti, Fausto accorso dall’America a vendicarlo, caduto sul mondo Zebio". Dal Brasile, come scrive Emilio Franzina nel saggio "Militari Italiani e Grande Guerra", tornò anche Amerigo Rotellini, nato a San Paolo nel 1894. In Italia lasciò la sua vita: il 26 agosto 1917 cadde sull’Altopiano della Bainsizza, oggi in territorio sloveno, e le sue spoglie riposano nel sacrario militare di Oslavia. E’ doveroso ricordare che Amerigo era figlio dell’anarchico Vitaliano Rotellini che a San Paolo fondò "Il Fanfulla", testata storia per la collettività italiana in Brasile, e per onorare la memoria del figlio, istituì una borsa di studio per studenti figli di giornalisti. Era un artista, un pittore per l’esattezza, e si trovava in Argentina per una serie di prestigiosi incarichi ed anche per appagare il suo spirito d’avventura. Cesare Mainella era nato a Venezia nel 1885, una famiglia di artisti la sua, sembra inevitabile frequentare l’Accademia di Belle arti; nel suo percorso di formazione, ha avuto come compagno di studi anche Amedeo Modigliani. Forse non si può definire un emigrato, ma dall’Argentina tornò per partecipare come volontario alla Grande Guerra. Oltre ai 300 mila italiani, tra i combattenti della Grande Guerra anche molti oriundi.

Tra gli altri, Fiorello La Guardia, uno dei Sindaci più amati di New York dove era nato nel 1882. Viene per la prima volta in Italia nel 1898, a Trieste esattamente, città della madre, per ritornare negli Stati Uniti nel 1906. Di nuovo in Italia, durante gli anni della Grande Guerra come tenente pilota, e subito si fa notare in una missione di bombardamento, tanto da essere invitato dal Re ad un ricevimento dove incontra anche Gabriele D’Annunzio. E proprio il Vate è più volte "raccontato" nel libro scritto da Michele D’Andrea, dal titolo singolare per un lavoro dedicato ad un conflitto: "Palle girate e altre storie. Cose curiose della Grande Guerra" (Edizioni AzzurraPublishing). A dare una spiegazione, lo stesso autore: "le palle girate (o anche palle rovesciate) erano un tipo di munizione da fucile realizzata artigianalmente. Si estraeva il proiettile dal bossolo e lo si rimontava capovolto: la minore stabilità della traiettoria era compensata dal fatto che quando colpiva il bersaglio nei tiri ravvicinati, la pallottola si deformava provocando ferite molto più estese. Insomma, una sorta di pallottola dum-dum fatta in casa. E poiché si trattava di munizioni espressamente proibite dalla Convenzione di Ginevra, i soldati che avevano (cioè preparavano o usavano) le palle girate erano in genere i più fetenti, i più nervosetti quelli da cui era meglio stare lontani. Un ultimo dettaglio: Dum Dum era il nome di un arsenale britannico nei pressi di Calcutta, dove alla fine dell’800 furono realizzate per la prima volta le micidiali pallottole". Altro modo di dire entrato ormai a far parte del linguaggio quotidiano, è rottura di scatole. Nella Grande Guerra, stava a significare il particolare gesto che equivaleva all’inizio del conflitto. Le munizioni erano custodite in delle scatole di cartone leggero sigillate e l’ordine "rompete le scatole" equivaleva, appunto, ad iniziare il combattimento. E prima di conoscere altre storie, aneddoti legati a quegli anni, un doveroso ricordo del primo caduto. "Si chiamava Riccardo Giusto (e non Di Giusto), era nato nel 1895 e faceva parte della 16a compagnia del Battaglione ‘Cividale’, 8° Reggimento alpini. Alle due di notte del 24 maggio, entrato con una pattuglia in territorio nemico per occupare il Monte Natpriciar, proprio di fronte a Tolmino, fu colpito di striscio da un proiettile sparato da un gendarme. La palla rimbalzò sulla vanghetta allacciata allo zaino e gli trapassò la nuca. Molte fonti indicano che fu decorato di medaglia d’oro al valor militare, ma negli elenchi ufficiali il suo nome non compare. Di lui non ci rimangono che una foto sbiadita, il cognome sbagliato in un cippo sul Monte Colovrat, al confine tra Friuli e Slovenia, e l’intitolazione di una strada alla periferia di Udine, la sua città natale. Dal 1923, la sua salma riposa nel cimitero monumentale di Udine". Molti anche i soldati dal nome importante, come il sergente Angelo Roncalli, ovvero il futuro Papa Giovanni XXIII, inizialmente in servizio presso l’ospedale di Bergamo, e in seguito cappellano militare dal febbraio 1916. Anche Antonio De Curtis, l’indimenticabile Totò, si lasciò coinvolgere dal conflitto arruolandosi come volontario; da quell’esperienza, sembra sia nata una delle sue battute più note: "Siamo uomini o caporali?". Il maestro Arturo Toscanini, come ricorda D’Andrea nel suo libro, venne invitato al Comando della II Armata del Generale Capello per un progetto musicale, Toscanini chiese di salire sul Monte Santo. Qui rimase quattro giorni, accanto ai nostri soldati, condividendo con loro ogni istante della giornata. Ma Toscanini non aveva ancora finito di stupire gli increduli soldati… incontrata una fanfara, seguendo il suo istinto, "ne prese d’autorità la direzione e al tramonto, dalla vetta, riversò le note della Marcia Reale e di Fratelli d’Italia sugli austriaci appena sloggiati. I quali austriaci non la presero bene, a quanto riferiscono le fonti, perché risposero con un altrettanto patriottico concerto di artiglieria. L’azione valse a Toscanini una medaglia d’argento al valor militare". Pare che Carlo Emilio Gadda, tenente degli Alpini e autore di "Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana", fosse un maniaco dell’ordine e della pulizia tanto da raccontarli nel suo Giornale di guerra e prigionia, "un’autentica miniera di minuziose descrizioni della quotidianità dal fronte, molte volte registra il fastidio per una baracca mal riassettata, per l’igiene approssimativa, per la trascuratezza dei soldati". Caratteristiche, quelle dell’ordine e della pulizia, che mal si conciliano con un conflitto, con quel conflitto, dove ancor più che la fame a provare duramente i soldati era la mancanza di acqua, con ripercussioni disastrose per quanto riguarda la sete e l’igiene. E la Guerra, con le sue infinite storie, drammi e tormenti, ha prodotto anche grandi opere letterarie e cinematografiche, impossibile non citare "La Grande Guerra", capolavoro di Mario Monicelli che grazie ai volti di Vittorio Gassman e Alberto Sordi racconta uno spaccato del conflitto, tra codardi, scatti di dignità e gesti di eroismo. Senza dimenticare le infinite canzoni, a cominciare da "La leggenda del Piave" che in breve divenne conosciuta e cantata al pari dell’Inno degli italiani. A scriverla, Giovanni Ermete Gaeta, nato a Napoli nel 1884, che con lo pseudonimo E.A. Mario firmerà testi intramontabili come "Vipera", "Tamurriata nera", "Santa Lucia lontana". La guerra, quindi, anche come occasione di forte ispirazione per tutti gli artisti… e sembra davvero incredibile, impossibile che i versi più conosciuti e amati di Giuseppe Ungaretti, "appartengano" alla prima Guerra Mondiale. Il 26 gennaio 1917, a Santa Maria La Longa, Ungaretti con "Mattina", regalò al mondo versi di struggente bellezza: "M’illumino di immenso". Ungaretti partecipò al conflitto arruolandosi come volontario nel 19° reggimento di Fanteria della Brigata Brescia, subito dopo l’entrata in guerra dell’Italia, il 24 maggio del 1915. Sul Carso, creò circa 80 poesie della raccolta "Il porto sepolto". Ma di certo, i versi scritti nel 1918 in Francia, esattamente nel bosco di Courton, che racchiudono tutto il dolore, il dramma, il terrore, lo strazio dei nostri ragazzi in divisa, sono senz’altro quelli di "Soldati".

 

FINE

Exit mobile version