Siamo in piena settimana della cucina italiana in Uruguay e quindi mi sembra doveroso allinearmi a queste celebrazioni, anche perché per me la gastronomia italiana é quanto di meglio c’é nel mondo. E questa straordinaria qualitá del nostro cibo deriva da due fattori: il primo, é ovvio, siamo italiani e quindi artisti, poeti, sognatori, e la cucina ha molto di arte e creativitá. Il secondo fattore, lo indovinai quando avevo 10 anni, e da allora lo sostengo dove e quando posso. La bontá della gastronomia é proporzionale alla povertá dei popoli. I popoli ricchi - vedi nord e sudamericani - non hanno avuto mai una grande cucina, perché mai hanno patito la fame come l’Europa o l’Italia durante il medio evo, le guerre, le carestie. La fame - dice la mia teoria - é alla base di una grande cucina, e noi in Italia durante molti secoli, abbiamo sofferto tanta fame. La fame ti fa inventare, mescolare, aggiungere o levare ingredienti e di tante cose povere ne fai una nuova e straordinaria.
È cosí, nella cucina italiana c’é il risultato eccezionale di una speciale alchimia provocata da una secolare fame. Questa mia riflessione nacque nella dispensa di casa: volevo imitare quanto vidi fare di nascosto piú volte alla signora che ci cucinava (la cameriera, come si diceva all’allora). Nottetempo aprii nella dispensa all’insaputa dei miei genitori, presi il pane duro nascosto in un fagotto color carta da zucchero. Lo bagnai sotto la cannella d’acqua, gli aggiunsi l’olio del Cilento e due pomodori di San Marzano, con un pizzico di sale sopra. Credetemi: ancora oggi sento i sapori intensi di quella cena che feci all’insaputa di tutti: era un pane povero - che a Napoli chiamavamo "pane cafone" - con un olio che aveva i riflessi di uno smeraldo e due pomodori rossi, certamente non trasgenici. Forse fu il piatto piú povero che ho provato in vita mia, ma anche quello che piú ricordo, proprio a conferma della mia teoria: la fame aguzza l’ingegno e la creativita´per trarre dagli stessi prodotti le variazioni piú originali e nobili.
Se non mi credete, cercate allora di provare quanti piatti é possibile trarre dagli ortaggi piú modesti. Pensate ai broccoletti di rape ripassati in padella, ai carciofi fritti alla giudia, ai cardi alla gevovese o in sufflé, ai fagioli con le cotiche o ai peperoni alla romana. A coloro che mi dicono che il mangiare vegetariano annoia, rispondo: provate con il vegetariano all’italiana, altro che noia! Penso anche ai sapori della cucina contadina, quella povera fatta a partire da rimasugli e poco piú. In Uruguay i fiori di zucca si buttano, perché nella storia del paese non si ricorda una vera fame: la carne sempre ha sodddisfatto in modo semplice e primitivo le necessitá alimentari. In Italia la storia insegna che i fiori di zucca non si buttano, e durante secoli i contadini hanno preparato fiori di zucca fritti, o fritti con ripieni di interiora o semplicemente saltati in padella. E quale meraviglia puó sorgere da una semplice spruzzata di cacio e pepe sulla pasta appena umida con un olio "vero" o in Toscana dove una zuppa di pane, una semplice e unica zuppa di pane, raggiunge sapori nobilissimi.
Dopo il pomodoro di san Marzano sul pane a mollo, ricordo al secondo posto del mio rating gastronomico personale (e la saliva si attiva) una zuppa di pane che per poche lire (non c’era ancora l’euro) mangiai a San Gimignano un pomeriggio di settembre. Indimenticabile! E che mi dite dei pesci poveri: avete mai provato le acciughe di Palinuro o le alici in tortiera? O le sarde al finocchio o fritte alla ligure o marinate? O le triglie alla calabrese, che contrastano in rivalitá con quelle alla livornese? Evito di parlare della pizza e della pasta, perché ormai sono state troppo modernizzate e globalizzate: il progresso ha inquinato questi grandi piatti della tradizione partenopea. Ma invece vale ancora la pena provare i sapori della cucina povera creata intorno alla polenta: avete mai provato la polenta col brodo? O con mozzarella e alici, o ancora con uccellini o in migliaccio? Straordinari sapori nati dalla mescolanza dei piú poveri ingredienti con l’aiuto dell’amore e dalla creativitá di donne e uomini che cercavano di estrarre dalla povertá dei propri prodotti, sapori che oggi sono una vera sfida per i piú grandi chef del mondo.
Un giorno mi trovai con un signore argentino, un po’ superbo come sempre capita ai "porteños" che mentre gli parlavo della cucina italiana, mi disse che quella francese era senz’altro superiore. Lo guardai con un piccolo senso di disprezzo, e non volli indagare molto di piú. Mi pareva un habituè dei "fast food" europei, e non certo un intenditore. "Ma lei lo sa, signore - gli risposi acido - che i francesi a tutto ci mettono la panna. Mettere la panna sui cibi é la loro confessione di quanto siano incapaci per estrarre i sapori veri dalla natura". Credo che non mi capí: lui continuerá a mangiare cibi con la "crema doble" (come chiamano da queste parti la panna) e io, tranquillo, cercheró ogni occasione per assaporare la cucina povera del nostro paese.
JUAN RASO