I dati diffusi dall'INPS sulla mobilità interna e le migrazioni internazionali della popolazione residente, scattano la fotografia di un vero e proprio esodo dei giovani italiani all'estero. Lo stesso report registra come negli ultimi cinque anni siano diminuite del 17 per cento le migrazioni dall'Africa.
Eppure, negli ultimi anni, il dibattito pubblico si è concentrato esclusivamente sul tema delle migrazioni verso il nostro Paese, trascurando completamente la vera emergenza che è rappresentata dalla fuga, spesso senza ritorno, dei nostri ragazzi. Pochi ne parlano.
Lo scorso governo a trazione leghista ha fondato gran parte della sua ragione sociale su due temi: l’immigrazione e l'abolizione della riforma Fornero. A ben vedere, si tratta di due questioni che molto hanno a che fare con il consenso immediato e poco con la costruzione di un futuro sostenibile. I migranti, infatti, non sono un "costo" come la destra sovranista vuol far credere ma contribuiscono al bilancio dello Stato molto di più di quanto ne usufruiscano, soprattutto nell’ottica di sostenibilità del sistema di welfare. La pseudo riforma pensionistica voluta da Salvini, che di fatto non è strutturale e non ha mai cancellato la Fornero, ha consentito a qualche centinaio di migliaia di cittadini dalla solide carriere contributive di andare in pensione, penalizzando milioni di giovani.
Quota 100, infatti, è stata finanziata con miliardi di euro che potevano essere destinati a scuola, università e ricerca, sgravi contributivi per incentivare il lavoro, politiche di sostegno alla natalità o di defiscalizzazione per far rientrare i ragazzi che che se ne sono andati. Tra l’altro, nel secondo Paese più vecchio al mondo, primo in Europa, e indebitato fino al collo, investire miliardi di euro per abbassare l’età per lasciare il lavoro significa mettere in serio pericolo le pensioni future di milioni di adulti di domani. Infatti. tenuti in considerazione la denatalità e l’allungamento della speranza di vita avremo nei prossimi anni serie ripercussioni sociali ed economiche che cambieranno profondamento il sistema Paese. Secondo Eurostat, da qui al 2050 l’Italia potrebbe perdere tra i 2 e i 10 milioni di abitanti, mentre gli anziani aumenterebbero di circa 6 milioni, arrivando a rappresentare quasi il 38 per cento della popolazione.
In questo quadro si inserisce il report di Istat che dimostra come l’assenza ormai decennale di politiche strutturali a sostegno dei giovani abbia ulteriormente accelerato la loro fuga all’estero. Parliamo di ragazzi - spesso diplomati o laureati - che hanno studiato in scuole o università pubbliche a spese della collettività, che portano la loro competenza, il reddito e la produttività all’estero, arricchendo al tri Paesi. Questa mattina, in una intervista al Mattino, il fisico di fama mondiale e Presidente dell’Accademia dei Lincei, Giorgio Parisi, invoca un piano straordinario decennale di investimenti per la ricerca industriale e di base, per porre un freno all’emigrazione intellettuale. Ma non è solo la componente scolarizzata a fuggire: anche quella più fragile migra alla ricerca di maggiori diritti e possibilità. Purtroppo, è evidente come la decisione di andare all’estero non dipenda solo da una scelta personale ma anche dall’impossibilità di realizzare i propri obiettivi e il proprio progetto di vita in Italia. Per molti di loro le difficoltà di accesso al mondo, soprattutto per le donne, l’impossibilità di fare carriera e soddisfare le proprie ambizioni o le retribuzioni troppo basse, la mancanza di un reale ricambio generazionale, sono tra le ragioni principali di questo esodo.
La globalizzazione avversata dai sovranisti di casa nostra, offre ai ragazzi grandi opportunità che li inducono, soprattutto se qualificati, a investire il loro talento in Paesi dove c’è maggiore considerazione per il capitale umano e, quindi, reali opportunità di crescita. I giovani italiani vanno all’estero, come quelli della nostra generazione andavano a studiare nelle città con le migliori università per il loro settore di studi.
Questo è un dato positivo nella misura in cui dimostra come l’Europa sia considerata fonte di grandi opportunità e venga vissuta come un luogo dove le persone vengono riconosciute per i loro meriti e capacità e non per la loro provenienza o rete di conoscenze. E, però, è del tutto evidente come questa "apertura" impoverisca drammaticamente il nostro Paese di competenze. Il Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa, presentato qualche tempo fa a Palazzo Chigi, ha sottolineato come in dieci anni il Paese abbia perso 500 mila italiani, di cui la metà sono giovani tra i 15 e i 34 anni e, considerando le caratteristiche lavorative di quest’ultima platea, si stima che questa fuga sia costata 1 punto percentuale di Pil, ben 16 miliardi di euro. Questo è il valore che i giovani potrebbero produrre se fossero occupati in Italia. Si tratta, in tutta evidenza, di un problema economico ma anche culturale: l’Italia viene considerata un Paese vecchio non solo anagraficamente ma anche socialmente e culturalmente. Perdutamente bello ma decadente, poco attrattivo, faticoso e ingiusto. Purtroppo, anche con l’ultima legge di bilancio, non sono state messe in campo iniziative specifiche, tranne quelle previste per il sostegno alle famiglie e a chi vuole lavorare, studiare e fare figli. Ma non era facile tenuto conto dell’urgenza di disinnescare 23 miliardi di clausole Iva che sarebbero costate più di 500 euro a famiglia. Questo è il Paese del debito e delle emergenze che senza una seria programmazione che non guardi solo a domani, inteso come giorno dopo, ma ai prossimi anni, è destinato a una inesorabile decadenza. Ma il tema dei giovani non può più essere trascurato e dovrebbe essere la politica nel suo insieme, senza differenze di colore politico, a farsene carico.
Per quanto mi riguarda, ho provato a dare un segnale di attenzione simbolico attraverso una misura inserita nell’esame della manovra con cui è stato istituito un Fondo, intitolato alla memoria di Antonio Megalizzi, per il sostegno e la diffusione delle emittenti radiofoniche universitarie. La cosa più interessante di queste realtà è lo sguardo che ci possono offrire.
Si tratta di comunità che danno la voce ai giovani. Da troppo tempo nel nostro Paese diciamo che non sappiamo cosa vogliono le nuove generazioni, cosa pensano e non capiamo le ragioni profonde del baratro sempre più largo che si apre tra loro e la politica. I microfoni e le domande delle radio universitarie, dunque, rappresentano un ponte per collegare mondi che non si parlano e non si ascoltano e per dare voce a una società plurale che crede nella conoscenza come motore di sviluppo e crescita. E lo abbiamo fatto pensando ad Antonio Megalizzi che era un ragazzo italiano che in Europa cercava la sua fortuna e i propri sogni. L’esempio di una generazione appassionata che voleva farsi
ascoltare. É una colpa gravissima che la politica e le istituzioni non si facciano carico di quella che è una vera e propria emergenza nazionale. Accettare questa fuga significa rinunciare a dare un futuro al Paese. La politica che investe sul domani, che vuole bene all’Italia, che si disinteressa del consenso immediato, del "qui e ora", non può arrendersi di fronte a questa sfida. Una sfida enorme per la sinistra riformista e progressista che è anche quella di dare un nuovo senso al proprio cammino.
Alessia Rotta