DI GIOVANNI VALENTINI
Fra pochi giorni, dunque, secondo l’annuncio del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, entrerà in vigore la riforma della prescrizione. Dal 1° gennaio 2020, verranno bloccati i termini dopo la sentenza di primo grado, sia in caso di assoluzione sia in caso di condanna. Fino alla sentenza definitiva, il reato non potrà più essere considerato estinto, lasciando magari i colpevoli impuniti. Ed è una riforma che riguarda tutti, anche chi non abbia o non abbia mai avuto a che fare con la giustizia, perché riguarda una garanzia che potenzialmente spetta a ciascuno di noi.
In attesa del vertice di maggioranza previsto per il prossimo 7 gennaio, e di un eventuale accordo con il Movimento 5 Stelle, il Partito democratico ha confermato intanto che depositerà una sua proposta di legge per salvaguardare la “ragionevole durata” del processo sancita dall’articolo 111 della Costituzione a favore dell’imputato.
Se non arriveranno segnali di apertura da parte dell’alleato di governo, gli stessi “dem” hanno anticipato che si sentiranno liberi di proseguire l’iter parlamentare. Come dire che, in mancanza di un’intesa, il Pd cercherà consensi in Parlamento anche tra le altre forze politiche.
La questione non è né tecnica né tantomeno burocratica.
A che cosa mira la riforma dei Cinquestelle?
Nello spirito giustizialista che contraddistingue il Movimento, punta essenzialmente a evitare che le lungaggini della giustizia consentano ai colpevoli di farla franca, dilatando i tempi del processo e sfuggendo così alla sentenza di condanna. E non c’è dubbio che si tratti di un obiettivo legittimo e sacrosanto.
Ma è proprio questo lo strumento migliore, più efficace e decisivo, per ottenere un tale risultato?
Molti ne dubitano. Fra questi, in prima linea, gli avvocati penalisti e più in generale il fronte garantista.
“I processi si prescrivono perché durano troppo”, ha scritto in un articolo pubblicato sull’Unità Francesco Petrelli, segretario dell’Unione delle Camere penali. E ha aggiunto: “Se avessero una durata ragionevole non si prescriverebbero”.
A parere suo e della maggior parte dei suoi colleghi, insomma, “il problema non è quello della prescrizione troppo breve, ma quello di un sistema processuale troppo lento e di processi troppo lunghi”.
E questo, purtroppo, è un dato di fatto incontrovertibile: tant’è che nel 2017, secondo i dati forniti dallo stesso ministero della Giustizia, su 129mila processi prescritti quasi centomila si sono prescritti prima ancora di arrivare in tribunale, trattandosi di fascicoli rimasti a far polvere sulle scrivanie o negli armadi.
Con la riforma del ministro Bonafede, forse si ridurrà il numero dei colpevoli che riescono a sottrarsi ai rigori della giustizia per decorrenza dei termini di prescrizione. Ma verosimilmente non si accelereranno i processi e chissà quanti imputati innocenti dovranno continuare ad aspettare anni e anni per essere assolti, come purtroppo già avviene nella realtà. Si cureranno così gli effetti di una giustizia lenta, non le cause che la provocano. Con buona pace della norma che stabilisce la “ragionevole durata” del processo, sulla base della consapevolezza che una giustizia tardiva è per definizione una giustizia ingiusta.
Può valere anche in questo caso per analogia il principio “meglio un colpevole in libertà che un innocente in carcere”? In un certo senso, sì. Perché il processo è già di per sé una condanna ed essere costretti ad aspettare per troppo tempo una sentenza di assoluzione costituisce una pena per così dire preventiva che segna per sempre la vita di un cittadino innocente in attesa di giudizio.
Eppure, come scrive ancora l’avvocato Petrelli nel suo articolo, non mancano gli esempi che dimostrano come “una sana e oculata amministrazione dei tribunali garantisce tempi processuali ragionevoli e annulla di fatto il problema della prescrizione”. Si tratta, dunque, di correggere le disfunzioni dell’apparato giudiziario, di tagliare i “tempi morti”, di incentivare la riorganizzazione degli uffici. Tutto ciò per rispettare i parametri di equità e di civiltà giuridica a cui una società moderna deve aspirare.
Una riforma di questo genere, più organica e complessiva, forse potrebbe contribuire anche a ridurre il numero degli errori giudiziari su cui l’Italia detiene un primato assai poco onorevole. Dal 1992 al 2018, gli innocenti finiti in carcere – calcolando soltanto quelli risarciti dallo Stato, a spese della collettività – sono stati oltre 27mila. In media, più di mille all’anno, tre al giorno. Non è anche questo uno scandalo che bisognerebbe stroncare in un Paese civile?
Tra il giustizialismo dei Cinquestelle e il garantismo dei Democratici, c’è da augurarsi che prevalga alla fine il senso di equilibrio e di responsabilità. I termini della prescrizione si possono anche interrompere. Ma occorre ridurre in primo luogo i tempi del processo, rispettando la presunzione d’innocenza che è un cardine fondamentale dello Stato di Diritto.
Ricorda a questo proposito lo scrittore ed ex magistrato Gianrico Carofiglio nel suo nuovo romanzo intitolato La misura del tempo (Einaudi) che il codice di procedura penale (articolo 530, comma secondo) “prevede appunto l’assoluzione quando è insufficiente o contraddittoria la prova che l’imputato abbia commesso il fatto”. Non esiste più, infatti, la formula dubitativa “per insufficienza di prove”.
Se l’accusa non è in grado di dimostrare la colpevolezza dell’imputato, questi va assolto con formula piena. Chissà quanti processi durerebbero meno, e soprattutto quanti errori d’ingiustizia si potrebbero evitare, se questo principio fosse rispettato fino in fondo nelle aule dei tribunali della Repubblica.