Genoa ultimo in classifica in serie A e Sampdoria appena sopra il baratro delle squadre in predicato per retrocedere, dopo essere stata anch’essa all’ultimo posto. Nella Genova tremolante delle autostrade in emergenza, dei ponti e delle gallerie in crisi, del Morandi polverizzato e in ricostruzione frenetica, degli altri ponti travolti da frane e incuria di manutenzione, della Banca-madre, la Carige, alla quale il socio ex di maggioranza, la famiglia Malacalza, chiede 486 milioni di risarcimento, si accende l’allarme calcio. E’ una delle quattro città italiane che può vantare due società nel massimo campionato di serie A, lo storico Genoa Cricket and Football Club, fondato nel 1893, prima società italiana a praticare questo sport e la Sampdoria, fondata nel 1946. E sta rischiando di perderle tutte e due, se non una certamente, dal massimo palcoscenico del campionato di serie A. L’allarme strettamente sportivo e tecnico societario ora è diventato molto più cittadino, da quando sia il sindaco Marco Bucci che il presidente della Regione, Giovanni Toti, sempre in simbiosi, hanno messo il dito nella piaga di un tormentone che sta riguardando la città nel suo complesso, non solo quella anche molto agitata dei tifosi rossoblucerchiati, che messi insieme rappresentano la quarta forza negli stadi italiani, quasi 40 mila abbonati nello stadio comunale, il "mitico" Ferraris, in concessione alle sue società. Il sindaco e il presidente hanno lamentato il fatto che le società non si attivano per trasformare lo stadio in una struttura moderna e accogliente, auspicando interventi esterni, ma hanno anche auspicato che la difficile situazione tecnica e sportiva possa migliorare dall’emergenza di questi tempi. "Non siamo esperti tecnici né sportivi, ma sarebbe bene che anche il calcio seguisse a Genova l’esempio della pallanuoto e della vela che sono ai vertici nazionali", ha detto Bucci, un po’ burbero,un po’ risentito per questa Genova in fondo classicfica del calcio. Si parte proprio da qui, dalle misere condizioni dello stadio, che ospita ogni domenica o il Genoa o la Sampdoria, ricostruito nel 1990 dalla matita del grande architetto Vittorio Gregotti e ridotto in miserevoli condizioni, di igiene, di servizi, di accesso, una specie di stadio-cesso, dove è difficile entrare, dove i servizi igienici fanno paura, dove funziona solo la visibilità della partita, grazie alla storica architettura, mantenuta in parte da Gregotti, che consente al pubblico quasi di incombere sui giocatori. Genoa e Sampdoria avrebbero dovuto occuparsi di migliorare questo stadio da quando lo hanno ereditato con una società in concessione e in realtà lo hanno abbandonato, salvo impegnarsi in una mega ristrutturazione spropositata della zona stampa, che consentirebbe di ospitare grandi match internazionali, ipotesi lontana per le difficoltà sportive dei due club. Altro che grandi match, oggi il rischio massimo per il Genoa, e relativo per la Samp, è di sprofondare in B. Si parte dallo stadio costruito in mezzo a uno storico quartiere popolare di Genova, Marassi, in riva al fiume delle alluvioni, il Bisagno e si arriva ai due presidenti delle società che sono quasi simultaneamente diventati i nemici pubblici numero uno di Genova 2020. Enrico Preziosi, 72 anni, imprenditore della grande ditta Giochi Preziosi, è alla testa del Genoa da 17 anni ed ha il record di avere mantenuto la società in serie A per tredici anni consecutivi, ma negli ultimi anni questo imprenditore di origine avellinese, fabbrica in Brianza e residenza a Lugano, traffici mondiali, ha trascinato la sua squadra in fondo, con campagna acquisti e cessioni più mirate all’incasso di plusvalenze che al rinforzo del team, battendo tutti i record di cambio di allenatori e giocatori nella ricerca disperata di salvezza e gioco decente. La panchina del Genoa è come un grand hotel: in questo campionato gli allenatori sono già stati tre e la squadra sta affondando. Preziosi è da anni contestato violentemente ed anche un po’ volgarmente per la sua condotta di grande mercante di calciatori sulla pelle della società, i cui bilanci sono spesso stati sanati con la vendita dei gioielli capitati sotto la Lanterna, grazie al suo indiscutibile intuito. Negli ultimi dieci anni, secondo statistiche europee, il Genoa è la squadra in Europa che ha schierato più giocatori, 207 ed è anche quella che ha realizzato un record di plusvalenze. Gli ex Genoa giocano con successo in equipe di tutta Europa, mentre lo svuotamento della squadra è permanente e le conseguenze durissime da un punto di vista sportivo. Da anni il presidente non frequenta lo stadio di Marassi, non potrebbe farlo per la contestazione virulenta che lo crocifigge con striscioni pesantissimi sulle gradinate, dove la frangia più estrema dei tifosi insulta anche la sua famiglia. Una figlia è sposata con un ex giocatore Miguel Veloso, oggi in forza al Verona. Preziosi è sempre stato un corpo estraneo alla città e ai suoi rappresentanti istituzionali, economici, della società civile. Arriva a Genova in blitz rapidi per andare a trovare la squadra sul campo di allenamento, che è a Pegli, in periferia. Poi riparte come un razzo. La società intera è distante, in tutte le sue componenti, da Genova, malgrado il calore della tifoseria storica che non ha mai fatto mancare il suo sostegno alla squadra, ai giocatori, anche quando i tempi sono grami, come oggi o come ieri, quando addirittura il Genoa fu condannato alla serie C per illeciti commessi dal presidente. Contestato a Genova, da cui sta così alla larga, Preziosi però è importante nella Lega Calcio. Ora fa parte del gruppo di Lotito, il potente presidente della Lazio, che ha la maggioranza negli assetti societari italiani ed è il regista delle elezione al vertice del nuovo presidente, il manager Paolo Dalpino. Malgrado questo peso strategico, la squadra sta affondando verso la serie B, dalla quale l’anno scorso si era salvata all’ultimo minuto dell’ultima partita. Campione nel suo business dei giocattoli a livello internazionale, questo self made man, che da ragazzo faceva lo stradino nella Salerno-Reggio Calabria e fece fortuna in Brianza, dove era giunto con una valigia di cartone, trasformandosi in venditore ambulante di giocattoli e dove, grazie a un accordo con il Berlusconi delle tv, esplose pubblicitariamente negli anni Ottanta, ha come il vizio del calcio e delle relative scommesse. Ha spesso annunciato di voler vendere il Genoa, ma non lo ha mai fatto, polverizzando le trattative che gli si proponevano, non mostrando mai le varie carte (i conti) della sua società, come fa un vero giocatore, che non vuole passare. Ma, celebre per avere azzeccato l’acquisto di giocatori diventati veri campioni dopo fologoranti passaggi fra i rossoblù genovesi, ora per salvare la squadra dalla serie B sta comprando ferri vecchi, ex giocatori tutti "scoppiati" con l’unico vantaggio di avere vestito la maglia rossoblù. E di vendita della società non si parla più, malgrado gli advisor incaricati dell’operazione e le voci sempre ricorrenti di acquirenti in agguato. Sull’altra sponda cittadina, quella sampdoriana, la parabola del presidente Ferrero è molto più corta nel tempo e nelle sequenze, seppure la situazione sia drammatica, non tanto sportivamente (la Samp è sopra al Genoa di 4 punti) quanto societariamente. Oggi, infatti, questo presidente romano, diventato rapidamente una macchietta per i suoi exploit davanti alle telecamere, il look da tovaglietta in testa, la parlata romanesca, le parolacce, le imitazioni di Crozza, è costretto a vendere la società per colmare 121 milioni di buco di una sua società, la "Eleven Finance", immobiliare e cinematografica, per la quale ha chiesto un difficile con - cordato fallimentare al Tribunale di Roma. Se non realizza vendendo la Samp, che pochi mesi fa non aveva voluto cedere al famoso gruppo del mito sampdoriano per eccellenza, Gianluca Vialli e soci americani, Ferrero esplode fragorosamente dopo una vita avventurosa che gli meritò il sopranome di "Viperetta", con - quistato nel mondo del cinema. Approdato a sopresa nel calcio maggiore grazie alla famiglia Garrone, i grandi ex petrolieri, del più classico establishment genovese, che gli cedettero nel 2014 la società per liberarsi di un fardello che tutta la potente famiglia non era più concorde nel voler mantenere, garantendogli anni e anni di fideiussoni per andare avanti, Ferrero è decollato e poi si è schiantato con innumerevoli giravolte economiche e sportive. Ora, mentre dopo i primi anni di gestione baciati dalla fortuna e da qualche scelta tecnico sportiva azzeccata di giocatori e allenatori, anche il paracadute Garrone si è chiuso e la fortuna sportiva è girata. Così, come Preziosi, Ferrero deve girare a Genova sotto scorta, anche se lui alla partita ci va con la sua bella sciarpa blucerchiata sulla testa, ma la contestazione è forte, pesante e universale. La città si trova quindi a dover pesantemente sopportare i due presidenti, tanto diversi e tanto uguali, corpi totalmente estranei al sistema cittadino, un avellinese e un romano, che non abitano in nessun modo Genova, se non i campi di allenamento delle due squadra, a Bogliasco nel Levante la Samp e a Pegli nel Ponente il Genoa. Un giorno c’è un corteo contro Preziosi e l’altro un’adunata contro Ferrero e la settimana dopo le parti si invertono. I social esplodono contro i due, le trasmissioni televisive delle emittenti locali sono quasi monocordi nel lamento parallelo per le squadre in fondo alla classifica e i presidenti "da cacciare". C’è solo una parola che a Genova non si può pronunciare, davanti alla crisi parallela delle squadre e alla insofferenza per le due presidenze diventate così intollerabili: fusione, cioè l’operazione che porterebbe ad avere una squadra sola, magari capace di esistere dignitosamente, senza disastri sportivi e terremoti societari. Molto meglio rispetto a questa ipotesi impronunciabile cento-mille Ferrero per i sampdoriani e cento e mille Preziosi per i genoani. Tanto nella città così fragile non c’è un imprenditore, un tycoon, un gruppo, una cordata in grado di prendersi o il Genoa o la Sampdoria che camminano a braccetto sull’abisso, delle retro cessioni e dei crack economici.

di FRANCO MANZITTI