Nel 1790, durante la presidenza di George Washington, si svolse il primo censimento degli Usa, all’interno del quale si era divisi in tre categorie: "Free White Females and Males", "All Other Free Persons" e "Slaves" (schiavi), all’epoca soprattutto africani. Come spiega Brent Staples in un lungo articolo sul New York Times, l’idea del Congresso era quella di dare vita a un’America bianca, protestante e culturalmente omogenea, immaginando che solamente "i bianchi liberi, emigrati negli Stati Uniti" potessero diventare cittadini naturalizzati. L’ondata di immigrati che stava arrivando da tutta Europa aveva generato il panico. Bisognava porre un argine, anche se questo poteva portare ad adottare politiche più restrittive per identificare cosa significasse essere "bianco" e quindi degno di cittadinanza. Come ricorda l’articolo, già nel Belpaese "i settentrionali avevano a lungo sostenuto che i meridionali — in particolare i siciliani, di pelle più scura — fossero un popolo "incivile" e di razza inferiore, troppo africani per far parte dell’Europa" (tematiche affrontate anche da Gian Antonio Stella in "L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi". L’editorialista del Corriere ricorda come agli italiani emigrati negli States venisse, ad esempio, rinfacciato di aver esportato la mafia, ndr). Questa logica trovò terreno fertile negli Stati Uniti: qui agli italiani venne impedito ad esempio di entrare in alcune scuole o sale cinematografiche; di essere parte di un’organizzazione sindacale; o ancora, vennero relegati in banchi separati delle chiese, vicino ai neri. Un ruolo importante ebbe anche la stampa che descrisse gli italiani come "swarthy" ("bruni di carnagione"), "dai capelli crespi" e "Guinea", termine con il quale erano derisi per le strade —. Arrivati come "bianchi liberi" negli Stati Uniti per cercare riscatto, presto vennero paragonati ai "neri" (anche perché accettavano lavori "in nero" nei campi di zucchero della Louisiana, come manodopera a basso costo sulle banchine di New Orleans o perché sceglievano di vivere tra gli afroamericani).
I LINCIAGGI DEGLI ITALIANI
Al centro dell’articolo di Staples, il linciaggio di New Orleans del 14 marzo 1891 quando una folla di cittadini assalì la prigione locale e uccise 11 immigrati italiani, in particolare siciliani (un episodio simile, il linciaggio di cinque immigrati italiani a Tallulah, in Louisiana, nel 1899, è ricordato da Enrico Deaglio in "Storia vera e terribile tra Sicilia e America", ndr). L’episodio diede vita a uno dei periodi di massima tensione tra gli Usa e Italia e a una crisi diplomatica che portò al richiamo in Italia dell’ambasciatore Francesco Saverio Fava da parte dell’allora presidente del Consiglio Antonio Starabba. La stampa italiana chiese con forza di fare giustizia sull’accaduto e di garantire alle famiglie delle vittime un adeguato risarcimento: i colpevoli non vennero mai puniti, ma l’allora presidente Benjamin Harrison decise di risarcire le famiglie con un’indennità. Grazie a quella storia, gli italiani sarebbero diventati "bianchi" di diritto, e meritevoli di rispetto (una storia che richiama alla memoria la vicenda di Sacco e Vanzetti, arrestati, processati e condannati a morte nel 1927 con l’accusa di aver ucciso un contabile e di una guardia del calzaturificio "Slater and Morrill" di South Braintree).
"SICILIANI, SERPENTI A SONAGLI"
Facendo un passo indietro, il giornalista ricorda come la carneficina a New Orleans fu messa in moto nell’autunno del 1890 quando il capo della polizia David Hennessy fu assassinato mentre stava tornando a casa. I nemici, certo, non gli mancavano come scrive lo storico John V. Baiamonte Jr.: Hennessy venne accusato dell’omicidio di un professionista, rivale, e "si dice anche che fu coinvolto in una faida tra due uomini d’affari italiani". Il suo assassinio, nel 1890, lo abbiamo ricordato sopra, portò a un processo clamoroso a seguito del quale alcuni cittadini si radunarono fuori dalla prigione, riuscendo ad entrarvi, e linciando brutalmente 11 dei 19 uomini che erano stati incriminati. Tale episodio di violenza sarebbe passato alla storia come "linciaggio di New Orleans". "Il capo Hennessy vendicato: undici dei suoi assassini italiani linciati da una folla", titolò il Times, giustificando la brutalità di quanto successo e descrivendo le vittime come "siciliani furtivi e codardi, discendenti di banditi e assassini, che hanno trasportato in questo Paese le passioni senza controllo, pratiche spietate ... Sono per noi un parassita, serpenti a sonagli... I nostri assassini sono uomini di sentimento e nobiltà rispetto a loro". Il ruolo di Cristoforo Colombo - Solo qualche mese dopo, il 13 marzo 1891, un secondo processo stabilì l’innocenza di quasi tutti gli imputati (per tre di loro la giuria non riuscì a stabilire un verdetto), anche se la sentenza venne accolta con rabbia dalla popolazione Usa. Per mettere un punto alla vicenda, Harrison fece appello al Congresso perché operasse per proteggere i cittadini stranieri — non i neri americani — dalla violenza della folla. Un tentativo di placare l’indignazione: da quel momento, di fatto, gli italiani avrebbero goduto di pari dignità. Nel 1892 una statua dedicata a Colombo — lo scopritore dell’America — venne eretta all’ingresso principale di Central Park a New York: il Columbus Day — come già aveva spiegato qui Massimo Gaggi — sarebbe diventato festa federale nel 1937 con il presidente Franklin Delano Roosevelt. Nel 2019, a 128 anni di distanza dall’accaduto, grazie al sindaco di origine italiana, LaToya Cantrell, l’amministrazione comunale di New Orleans ha reso scuse pubbliche e ufficiali alla comunità italiana che vive negli Usa. Come spiega Danielle Battisti in "Whom We Shall Welcome", gli Usa "hanno riscritto la storia dichiarando Colombo il "primo immigrato", anche se non ha mai messo piede in Nord America e non è mai immigrato (tranne forse in Spagna). L’averne fatto un mito, ha garantito agli italo-americani un ruolo nella costruzione della nazione e li ha legati all’asserzione paternalistica, ancora oggi sentita, che Colombo "scoprì" un continente già abitato da nativi americani". Le credenze che ormai si erano diffuse sugli immigrati italiani — sostenne il senatore Henry Cabot Lodge — "erano di per sé sufficienti a giustificare barriere più elevate all’immigrazione. Il Congresso nel 1920 limitò l’immigrazione italiana per motivi razziali, anche se gli italiani erano legalmente bianchi, con tutti i diritti che ne derivavano". I linciaggi ai danni degli italiani — chiarisce Staples — si inserivano in un contesto nel quale i giornali americani del Sud giustificavano gli omicidi degli afro-africani — spesso accusati con false prove di violenza sessuale —, etichettando le vittime come "bruti", "diavoli", "rapitori", "criminali dalla nascita". Insomma, la stampa era "quasi complice" nel giustificare le violenze compiute dalla folla. Da parte sua, The Times ha fatto un uso ripetuto del titolo "A Brutal Negro Lynched", marchiando le vittime come "criminali congeniti".
UNA 'STORIA D’AMORE' CON LA LOUISIANA
L’excursus prosegue ricordando come gli immigrati italiani furono vittime anche di altre accusi, ad esempio quando arrivarono in Louisiana dopo la Guerra Civile, per soddisfare il bisogno di manodopera a basso costo. I nuovi arrivati sceglievano di vivere insieme nei quartieri italiani, dove parlavano la lingua madre (o il dialetto), preservavano le usanze, fraternizzavano e in alcuni casi anche si sposavano con gli afro-americani. Una vicinanza che avrebbe portato gli stessi italiani a considerare i siciliani come "non completamente bianchi e ad ammettere nei loro confronti la persecuzione — incluso il linciaggio —, normalmente imposta agli afro-americani".
"ASSASSINI PER NATURA"
Gli italiani, infine, conclude l’articolo, erano accusati di essere "criminali e assassini per natura", come si riscontra in una storia del 1874 che racconta di un immigrato come di "un uomo corpulento, il cui aspetto era simile a quello del tradizionale brigantino abruzzese". Queste caratterizzazioni raggiunsero un crescendo diffamatorio in un editoriale del 1882 che apparve sotto il titolo "I nostri futuri cittadini": "Non c’è mai stata da quando New York è stata fondata una classe così bassa e ignorante tra gli immigrati che si sono riversati qui come gli italiani del sud che hanno affollato le nostre banchine durante l’anno scorso". E ancora, "i bambini immigrati italiani sono assolutamente inadatti e sporchi da collocare nelle scuole elementari pubbliche, a fianco di quelli americani". Il mito razzista secondo cui afro-americani e siciliani erano entrambi criminali innati si ritrova, poi, anche in una storia del Times del 1887 riferita alla storia del linciaggio di "Dago Joe": "Una mezza razza, figlio di un padre siciliano e di una madre mulatta, che aveva le peggiori caratteristiche di entrambe le razze... Astuto, infido e crudele, era considerato nella comunità in cui viveva un assassino per natura". La prossima vittima della foga che in questa estate americana ha travolto statue e monumenti confederati in tutto il Paese potrebbe essere Cristoforo Colombo, il navigatore genovese che alla guida delle tre caravelle scoprì le Americhe nel 1492. Simbolo per gli italo-americani, l’esploratore è considerato una figura controversa per il trattamento riservato ai nativi americani al momento dello sbarco nel nuovo continente ed è diventato l’obiettivo di manifestazioni e petizioni contro "i simboli d’odio e di divisione razziale" (a Chicago hanno coinvolto Italo Balbo), che vanno avanti da due anni e che si sono intensificate nelle ore successive ai tragici scontri di Charlottesville, in Virginia, dove tre persone hanno perso la vita durante una manifestazione di suprematisti bianchi.
I MONUMENTI SOTTO ATTACCO
Le proteste contro il navigatore genovese sono esplose negli ultimi giorni. A Baltimora, in Maryland, una statua di Colombo eretta nel 1792 è stata distrutta a martellate. A Detroit, in Michigan, i manifestanti contro il suprematismo bianco hanno avvolto il monumento del 1910 all’esploratore in un drappo nero che, con l’ausilio di un pugno del black power, chiedeva: "Reclamiamo la nostra storia". A Houston, in Texas, una statua donata alla città dalla comunità italoamericana nel 1992, nel cinquecentenario della scoperta delle Americhe, è stata imbrattata di vernice rosso sangue. A Oberlin, in Ohio, il consiglio comunale ha approvato una risoluzione che abolisce il Columbus Day – il secondo lunedì d’ottobre, quest’anno è stato il 9, festa nazionale negli Stati Uniti – sostituendolo con l’Indigenous People Day, la festa delle popolazioni indigene. Statue di Colombo sono sotto accusa anche a Lancaster (Pennsylvania), a Columbus (Ohio) e a San Jose (California), dove già nel 2001 un uomo provò a distruggere con un martello il monumento all’esploratore eretto in municipio, urlando "assassino". L’uomo fu arrestato e condannato a pagare 66 mila dollari per restaurare la statua. La statua di Columbus Circle - A New York, invece, il destino della statua alta 23 metri che domina Columbus Circle è in mano a una commissione istituita dal sindaco — di origine italiana — Bill de Blasio. A trascinare il monumento nella bufera è stata una dichiarazione della presidentessa del consiglio comunale Melissa Mark-Viverito, che l’ha inserita nella lista dei simboli da valutare. "Li incoraggerò a decidere anche su quella", ha risposto Mark-Viverito ai giornalisti, parlando della statua donata alla città dagli italo-americani nel 1892. "Nei Caraibi — in particolare a Portorico, da dove vengo — si sta discutendo del fatto che non dovrebbero esistere monumenti a Cristoforo Colombo, considerando cosa significa per la popolazione nativa: l’oppressione e tutto quello che ha portato con sé".
LA COMMISSIONE DEL SINDACO DE BLASIO
Già nel 2013, nonostante le critiche, il sindaco de Blasio decise di partecipare alla parata del Columbus Day — "Ormai più una festa della comunità italoamericana che una celebrazione del personaggio", nota il New York Post — prendendo tuttavia le distanze dal navigatore. "È una figura controversa", disse all’epoca. "Ci sono diversi aspetti preoccupanti nella sua storia". Proprio per trovare una risposta a questo dibattito, de Blasio formerà nei prossimi giorni una task force, i cui membri dovranno stabilire in tre mesi gli "standard universali" per la commemorazione di individui da parte della città e determinare quali monumenti dovranno essere rimossi. "Prenderò decisioni sulle basi delle loro raccomandazioni", ha affermato il sindaco. "Valuteremo ogni monumento che possa in ogni modo suggerire odio, divisione, razzismo, antisemitismo o qualsiasi altro messaggio che sia contrario ai valori della città di New York".
LA REAZIONE DELLA COMUNITÀ ITALOAMERICANA
Per salvare la statua di Columbus Circle, però, si è prontamente mossa la comunità italoamericana, che si è radunata nell’angolo sudoccidentale di Central Park per combattere — "come mai fatto finora" — e scongiurare la rimozione. "La comunità si mobiliterà e farà tutto il possibile per evitarla. Sarebbe uno schiaffo in faccia alla comunità italoamericana e non lo tollereremo", ha affermato John Fratta, a capo della commissione statale per la giustizia sociale, mentre il repubblicano Andrew Raia si dice pronto ad approvare una legge ad Albany – capitale dello Stato di New York e sede del parlamento locale – per bloccare ogni tentativo della città.
IL REGALO DEGLI ITALIANI ALLA CITTÀ
Le dichiarazioni della speaker Mark-Vivarito sono state contestate anche dal consigliere comunale Ron Castorina, che rappresenta il distretto — molto italoamericano — di Long Island. "È difficile giudicare Cristoforo Colombo, un uomo vissuto nel 1400, e utilizzare i principi odierni per stabilire che tipo di uomo fosse", ha affermato Castorina, appoggiato dai membri dell’Order Sons of Italy in America, la più antica organizzazione italoamericana, che rappresenta oltre 26 milioni di persone. "Quella statua ricorda gli italo-americani che hanno contribuito a costruire questa città", ha proseguito, sostenendo che molte delle vittime attribuite a Colombo fossero dovute alle malattie importate dall’Europa e alle quali le popolazioni indigene non erano immuni. "Gli immigrati italiani hanno costruito questa città, e quella statua e il loro regalo a New York".
Silvia Morosi