Le lacrime della coscienza storica non si asciugano mai. La memoria sepolta riemerge come un fiume carsico, irruenta e impetuosa. I morti tornano a parlarci. Le vittime tornano a chiedere giustizia. L’Italia non ha mai fatto davvero i conti con il lato oscuro della propria storia. Considerarci brava gente dopo la seconda guerra mondiale è servito a non guardarci allo specchio. E i meccanismi autoassolutori sopravvivono ancora. È sempre colpa di qualcun altro. Mai una autentica assunzione di responsabilità. Sarebbe ora di comprendere fino in fondo di cosa siamo capaci noi italiani, affinché la notte della coscienza non torni ad oscurare i nostri giorni inquieti. Il contesto storico non giustifica le peggiori nefandezze. Anche la guerra ha le sue regole. E tra queste ci sono i doveri inderogabili di trattare i prigionieri con umanità e di non saccheggiare le loro case. Il mito della razza superiore, erede dell’impero romano, era stato costruito da anni con cura: decine di scienziati contribuirono in epoca fascista alla "difesa della razza". Nel 1943 si raggiunse il culmine con Benito Mussolini che scrisse ai soldati della seconda armata italiana in Dalmazia: "So che a casa vostra siete dei buoni padri di famiglia, ma qui non sarete mai abbastanza ladri, stupratori e assassini", incoraggiando senza remore la pulizia etnica, che già da un paio di anni veniva perpetrata con particolare ferocia soprattutto sotto la guida del generale Roatta. L’occupazione italiana della Slovenia, la Dalmazia e la Croazia cominciò nell’aprile del 1941. Il generale Roatta tenne tale comando dal marzo del 1942 al febbraio del 1943. Appena arrivato diramò agli ufficiali della seconda armata la famigerata circolare 3C, con la quale si pianificava lo sterminio indiscriminato della popolazione civile, affrontando con misure di controguerriglia i partigiani iugoslavi. Nel contesto di una guerra senza esclusioni di colpi da ambo i lati, sotto il suo comando gli occupanti italiani si macchiarono di numerosi e documentati crimini di guerra contro la popolazione civile. Fu attuato un vero e proprio progetto di epurazione contro comunisti, studenti, disoccupati e le loro famiglie, e i loro villaggi furono distrutti e saccheggiati, ritenendo che tutti indiscriminatamente potessero potenzialmente andare ad ingrossare le file dei ribelli. Tra l’altro, in questi territori i crimini italiani e poi fascisti non cominciarono neanche con la seconda guerra mondiale, ma nel ventennio precedente, al termine della prima, quando l’Istria, regione multietnica e multilingue, venne ceduta dall’Impero Asburgico all’Italia, che impose la sua politica di persecuzioni, privazioni linguistiche e culturali verso sloveni e croati. Ma torniamo al 1942: fu attuata una feroce repressione guidata anche da un presupposto sentimento di superiorità razziale. Nella notte tra il 22 e il 23 febbraio 1942, Roatta, Robotti e Grazioli fecero circondare Lubiana con reticolati di filo spinato: la città diventò così un immenso campo di concentramento. Un quarto della popolazione venne internato, anche donne, vecchi e bambini. Chi non fu ammazzato subito, spesso è morto di stenti nei campi di concentramento italiani. Il 24 agosto 1942 Grazioli prospettò al ministero dell’Interno "l’internamento di massa della popolazione slovena" e la sua "sostituzione con la popolazione italiana". Roatta giunse a raccomandare l’uso dell’aviazione e dei lanciafiamme per distruggere villaggi interi. Nell’autunno 1942 la diocesi di Lubiana fece arrivare alla Santa Sede un documento inquietante, che chiedeva di fare il possibile per evitare che i campi "diventino accampamenti di morte e di sterminio". Roatta non si fece scrupolo di minimizzare e di procedere con maggior impeto sanguinario. Fu soprannominato dai partigiani "la bestia nera" per la sua immonda crudeltà. Il generale Roatta si rese così responsabile di orribili crimini, ricordiamo i capi d’imputazione mossi contro di lui nella richiesta di estradizione della Jugoslavia di Tito: "Quale principale responsabile egli contribuì allo sterminio del popolo sloveno attraverso, in particolare, la fucilazione di circa 1000 ostaggi, l’uccisione indiscriminata di 8000 persone, l’incendio di 3000 case, l’internamento di 35000 persone, la distruzione di 800 villaggi, la morte per fame nel campo di concentramento di Arbe di 4500 persone (...)". Inoltre, Il generale Roatta violò deliberatamente le disposizioni della Convenzione internazionale dell’Aja del 1907 relativa ai prigionieri, ai feriti e agli ospedali, e fu ritenuto anche responsabile di aver disposto la fucilazione di partigiani fatti prigionieri e di ostaggi, di internare i componenti di intere famiglie e villaggi e di consegnare i civili in massa ai tribunali militari, di aver disposto che i civili fossero ritenuti responsabili di tutti gli atti di sabotaggio commessi nelle vicinanze della loro abitazione e che per rappresaglia si potesse sequestrare il loro patrimonio, distruggere le loro case e procedere al loro internamento, e di aver disposto di consegnare ai tribunali militari i partigiani catturati feriti, le donne e gli uomini inferiori ai 18 anni e di fucilare sul posto tutti gli altri partigiani caduti prigionieri. Nell’armadio della vergogna lo abbiamo tenuto nascosto troppo a lungo. Alla fine della seconda guerra mondiale a causa del processo di pacificazione e per non essere troppo deboli sui tavoli internazionali abbiamo insabbiato tutto. Nenni e Togliatti preferirono un’ampia amnistia in accordo con gli alleati, i quali a loro volta ritennero che i fascisti potessero ancora servire durante la guerra fredda. Nel giugno 1951 la Procura generale militare archiviò l’istruttoria per i crimini di guerra sulla base di un cavillo giuridico offerto dall’art. 165 del codice penale militare di guerra, che vincolava l’azione giudiziaria italiana al presupposto della reciprocità, cioè alla eventuale disponibilità della Iugoslavia di Tito a procedere nei confronti di chi aveva commesso crimini di guerra contro cittadini italiani, come nel caso delle foibe. Ancora oggi sembra che ci sia una foto del generale Roatta in bella mostra negli uffici dello Stato Maggiore, a disonore delle istituzioni repubblicane che lo consentirebbero. Se vogliamo davvero che la nostra storia ci insegni qualcosa, non possiamo dimenticare. Nel caso Roatta non serve l’oblio, né tantomeno la "damnatio memoriae". Abbiamo il dovere di ricordare per sempre, con la consapevolezza di ciò che siamo stati, e non vogliamo tornare ad essere mai più.

GREGORIO DE FALCO, SENATORE