Non si sa se avvertendo la vena umoristica di solito suscitata dall’inanellarsi di vuote parole, dopo la riunione della maggioranza che sostiene l’attuale Governo, è stato messo fuori un comunicato. «S’inizierà subito – vi si legge – formando gruppi di lavoro che faranno sintesi delle varie proposte delle riforme e le misure necessarie a conseguire gli obiettivi di governo. Seguiranno poi tavoli di lavoro sui singoli temi». La semplice analisi del linguaggio mostra raggelante vuoto. A parte l’arduo compito di chi volesse perimetrare il campo semantico delineato dai due sintagmi ai quali è affidata in successione la progressiva formazione dei contenuti dell’azione che impegnerà l’esecutivo – "gruppi di lavoro", "tavoli di lavoro" – non necessitano accurate doti di semiologo per respirare l’aura del nulla. Non uno dei termini e delle metafore impiegati nell’arzigogolata comunicazione contrassegna un qualcosa di concreto.
Nessuno si riferisce a un contenuto percepibile come comprensibile obiettivo politico: chessò, "ci occuperemo della scuola, della sanità, del reddito di cittadinanza". Nulla. Semplicemente frasi prive di qualsiasi denotazione, di quelle, a farla breve, che s’usano quando non si vuole o non si può dir nulla dotato d’un senso. E in politica, quando non si dice nulla dotato d’una direzione, si trasmette un segnale che di senso ne ha uno molto, molto preciso. Significa semplicemente che chi parla non intende impegnarsi su alcun contenuto preciso, perché i contenuti precisi nella politica sono fini da perseguire, iniziative da porre in campo, soprattutto trasformazioni della realtà da concretizzare. E per far questo è necessario disporre della forza, esattamente di quanta ce ne vuole – non poca – per operare quegli spostamenti nell’attuale assetto degli interessi sul quale s’intende incidere. Perché gli interessi resistono, organizzando controffensive e dunque bisogna aver mezzi se si vuol vincere.
Basterebbero queste notazioni generali, per comprendere in quale disgraziata condizione si muove o, meglio, si mantiene ferma l’Italia. Ma la ragione è evidente. Il Governo è tenuto in piedi da una coalizione di due forze che, com’è noto, ben poco hanno da condividere, nella propria storia, cultura politica (se l’espressione non è troppo grossa), nei propri riferimenti. Ma questo ancora potrebbe essere un qualcosa di superabile. Perché il tornaconto in termini d’esercizio del potere è frequentemente – come mostra anche la costituzione di questo Esecutivo – cemento di ottima tenuta. Il problema è oggi costituito dalla profonda crisi del M5S. Ben si sa che i partiti populisti – quelli che sollecitano il consenso vellicando le frustrazioni e i desideri della parte meno provveduta dell’elettorato – hanno essenzialmente una risorsa: la risorsa dell’ampio consenso che, generalmente per breve periodo (ma non sempre), sono in grado d’aggregare intorno a sé. Quanto a organizzazione, ne son quasi privi, e quando c’è, è esile e di scarsissima tenuta, essendo essi nati sull’onda e sull’improvvisazione che l’urgere dei fenomeni populistici sempre impone.
Ora, il M5S ha troppo rapidamente perso il suo capitale, ciò su cui poteva far conto per imporsi nel campo politico e dettare la propria linea. Questo consenso è più che dimezzato, nonostante alcune realizzazioni non siano mancate, come il reddito di cittadinanza e la riduzione di privilegi e numero di parlamentari. La realtà è che le persone – gli stessi elettori in precedenza incantati dal Movimento – devono aver inteso che quelle misure sono del tutto inadeguate ad affrontare la situazione nazionale e internazionale – economica e politica – in cui l’Italia si dibatte. Devono aver compreso che il Paese sta andando verso un destino d’inesorabile recessione, sul piano stesso delle condizioni per la convivenza civile. Come che sia, la formazione creata dal comico genovese ha perso l’unico suo punto di forza, essendo priva, come si diceva, d’organizzazione e competenze di qualsivoglia natura. Ha perso la forza del consenso, quello che le consentiva d’imporsi alle altre forze politiche ed alle stesse massime istituzioni dello Stato.
Ora, il Governo nazionale regge sulla rappresentanza parlamentare del M5S, comprensibilmente atterrita e dunque gravemente disorientata. Quella parodia di capo politico che aveva, ha lasciato il ruolo e chi l’ha succeduto, a guardarlo e a sentirlo, difficilmente diverrà un leader. Di qui il vuoto fraseggiare dell’ineffabile Presidente del Consiglio, anche lui colà per caso, senza mai avere avuto una base e uno spessore politico, che nemmeno s’è poi guadagnato, a dispetto di quanto afferma la sempre corriva stampa di regime. Insomma, un bel disastro, nel momento in cui l’Italia avrebbe necessitato di forte iniziativa politica e grande capacità di decisione. Qualcosa che le manca, va pur detto, da troppo tempo, salve brevi ma sciagurate parentesi.
ORAZIO ABBAMONTE