In Italia gli allenatori di calcio tesserati alla Figc sono 28.880. Un popolo che basterebbe a riempire comuni come Assisi, Cervia, Desenzano, Gragnano. Una professione sostanzialmente da precari, a fronte di pochi gaudenti e ricchissimi, però anche loro a rischio esonero. Allenatori sul trapezio, spesso appesi a un filo, strettamente dipendenti dai risultati della squadra. Se il pallone non entra nella porta giusta, son dolori. Sotto forma di esoneri, ovvio.
Gran parte dell’esercito di tecnici opera nei campionati dilettanti. Ma per guadagnare cosa? Una miseria. Trentasei mila euro l’anno prende un allenatore Uefa A, abilitato ad allenare eventualmente anche tra i professionisti. Dove non arriverà mai, o se ci è arrivato di straforo poi è precipitato all’inferno. Un Uefa B guadagna solo 18mila euro. Vi sembra questo il mondo dorato del quale si scrive, si discute, si vocifera? Quello è il piccolo grande mondo di Guardiola, Klopp, Conte, Capello, e loro simili. Non più di cinquanta al mondo nel mare magnum di una professione non atipica, ma unica sì. Gente chiamata a vivere nell’incertezza di quello che sarà il risultato della partita di campionato.
Pensate agli allenatori esonerati in serie A, dal 2000 a oggi: 252, una media di 12 licenziamenti all’anno. Maurizio Sarri, uno al top dopo aver allenato e vinto in Inghilterra, fatto grandi cose e regalato bel calcio a Napoli, ora alla cloche della Juventus, di recente ha inteso sintetizzare i rischi della professione con una frase che pare abbia mandato in bestia dirigenti e dipendenti di Poste Italiane. Un’espressione non esattamente felice "mica lavoro alle Poste", lui impiegato a lungo in banca agli albori della carriera di allenatore, per dire che alle Poste il posto è sicuro, in panchina meno che mai. Una provocazione, tout court. La realtà comunque è amara per la galassia degli allenatori italiani.
La loro non è vita. Intanto stiamo parlando dell’unica categoria costantemente in aumento da dieci anni. Un universo che, al contrario, deve registrare la diminuzione del numero di squadre, di calciatori e arbitri. Quella che non cambia, scendendo di categoria, è la qualità della vita. L’attività di allenatore comporta le malattie professionali. Intanto due, per gradire: l’insonnia e il mal di stomaco. "Riesce difficile anche essere un buon papà, i miei tre figli me lo hanno rinfacciato a lungo", spiega Renzo Ulivieri, esperienze praticamente in tutta Italia, il presidente nazionale degli allenatori. Una volta, quando un allenatore arrivava ad allenare in serie C, chiedeva al presidente del club "Mi trovi anche un lavoro?". Era la norma, e Sarri lo sa molto bene.
Come pure Mario Berretta, spesso di passaggio in serie A, oggi consigliere federale: insegnante di educazione fisica alla scuola media. Il tecnico della storica promozione del Carpi in serie A, Castori, ha coniugato a lungo la professione di allenatore con quella del ragioniere. Poi si è messo a vendere scarpe. L’attività svolta a lungo da Arrigo Sacchi, prima che diventasse una celebrità mondiale. Gigi Maifredi – Brescia, Bologna, Juventus, poi lo scivolone – vendeva champagne e liquori. In serie A lavora il cinque per cento di privilegiati della categoria. Sì, il cinque per cento appena di 28.880 allenatori. Dato indubbiamente spoetizzante, ma facilmente calcolabile. Quel Una lezione dei futuri allenatori 'Uefa A' a Coverciano cinque per cento di privilegiati comprende anche vice allenatori e preparatori, i componenti del cosiddetto staff.
Gli altri? Quasi tutti si barcamenano nei dilettanti. Tutele zero, chiamarli contratti è molto di più di un eufemismo. Gli accordi economici sono annuali e con massimali prefisssati. I compensi sono quelli sopra citati. E chi ha interrotto gli studi, la più parte, deve accontentarsi al massimo di 18mila euro annuali, 1500 al mese. Allenatore comunque anche lui come il collega più qualificato evidentemente milionario. Ma c’è di più: fortunato può ritenersi chi firma questo tipo di accordo, molte società offrono semplici rimborsi spese. Un’ escamotage per non pagare l’allenatore esonerato. La pensione, a queste condizioni, diventa un autentico miraggio.
I contratti dilettantistici non prevedono il versamento di contributi. Neanche se il tecnico con patentino, abilitato dopo la frequentazione di un corso ed esami a Coverciano, lavora in una società professionistica in qualità di tecnico delle formazioni giovanili. Le società non sono infatti obbligate a legarsi con un contratto di lavoro subordinato. Quindi, la pensione te la sogni. La domanda è d’obbligo, è vita anche questa per chi non riesce ad entrare nello sparuto gruppo degli eletti ultra milionari dell’immensa galassia calcio? No, non è vita. Maledetta la passione.
di FRANCO ESPOSITO