Viene ottenuto da mani straniere più di ¼ del Made in Italy a tavola, con 370mila lavoratori provenienti da ben 155 Paesi diversi che hanno trovato regolarmente occupazione in agricoltura fornendo il 27% del totale delle giornate di lavoro necessarie al settore. E’ quanto emerge da una analisi della Coldiretti diffusa in occasione della presentazione del progetto “Lavoro stagionale - dignità e legalità”, su base dei dati del Dossier Statistico Immigrazione 2019.
Nei campi italiani la presenza di occupati stranieri è divenuta un fenomeno strutturale come dimostra anche – sottolinea la Coldiretti – la crescita della loro presenza anche alla guida delle imprese agricole con quasi 17mila titolari di nazionalità diversa da quella italiana.
La comunità di lavoratori agricoli più presente in Italia – spiega Coldiretti – è quella rumena con 107591 occupati, davanti a marocchini con 35013 e indiani con 34043, che precedono albanesi (32264), senegalesi (14165), polacchi (13134), tunisini (13106), bulgari (11261), macedoni (10428) e pakistani (10272) secondo le elaborazioni Coldiretti che ha collaborato al Dossier statistico Immigrazione 2019.
Sono molti i “distretti agricoli” dove i lavoratori immigrati sono una componente bene integrata nel tessuto economico e sociale come nel caso – aggiunge la Coldiretti – della raccolta delle fragole nel Veronese, della preparazione delle barbatelle in Friuli, delle mele in Trentino, della frutta in Emilia Romagna, dell’uva in Piemonte fino agli allevamenti da latte in Lombardia dove a svolgere l’attività di bergamini sono soprattutto gli indiani mentre i macedoni sono coinvolti principalmente nella pastorizia.
“I lavoratori stranieri contribuiscono in modo strutturale e determinante all’economia agricola del Paese e rappresentano una componente indispensabile per garantire i primati del Made in Italy alimentare nel mondo su un territorio dove va assicurata la sicurezza sul lavoro e la legalità per combattere inquietanti fenomeni malavitosi che umiliano gli uomini e il proprio lavoro e gettano una ombra su un settore che ha scelto con decisione la strada dell’attenzione alla sicurezza alimentare e ambientale” afferma il Presidente della Coldiretti Ettore Prandini.
A più di tre anni dall’approvazione della legge sul caporalato l’esperienza dimostra che la repressione da sola non basta ed è invece necessario – sottolinea la Coldiretti – agire anche sulle leve economiche che spingono o tollerano lo sfruttamento, dalla lotta alle pratiche commerciali sleali fino alle agevolazioni concesse dall’Unione Europea alle importazioni low cost da Paesi a rischio.
Occorre – precisa la Coldiretti - spezzare la catena dello sfruttamento che si alimenta dalle distorsioni lungo la filiera, dalla distribuzione all’industria fino alle campagne dove i prodotti agricoli, dal pomodoro alle arance, pagati sottocosto pochi centesimi al chilo spingono le imprese oneste a chiudere e a lasciare spazio all’illegalità.
Per questo – continua Coldiretti – bisogna agire su due fronti: occorre affiancare le norme sul caporalato all’approvazione delle proposte di riforma dei reati alimentari presentate dall’apposita commissione presieduta da Giancarlo Caselli, presidente del comitato scientifico dell’Osservatorio Agromafie promosso dalla Coldiretti, ma è anche necessario arrivare al più presto – conclude la Coldiretti – al recepimento della direttiva (UE) 2019/633 in materia di pratiche commerciali sleali del 17 aprile 2019 per ristabilire condizioni contrattuali più eque lungo la catena di distribuzione degli alimenti, con l’introduzione di elementi contrattuali e sanzionatori certi rispetto a prassi che finora hanno pesantemente penalizzato i produttori.