Coronavirus, è partita la corsa al farmaco. Si è aperto un mercato che vale miliardi e miliardi. Quando gli esperti daranno l’ok? Quando i vaccini saranno sul mercato? Si è aperta una corsa a colpi di miliardi di investimenti. Un vaccino, già in uso per altre malattie, è stato messo a punto in America ed è stato usato con successo a Genova, in Italia. Si chiama Remdesivir. Il farmaco è stato messo a punto, negli ultimi 10 anni, da Mark Denison, direttore delle malattie infettive pediatriche al Vanderbilt University Medical Center’s Institute for Infection, Immunology, and Inflammation e dai colleghi ricercatori dell’University of North Carolina. Hanno studiato i trattamenti antivirali per cercare di trovare qualcosa che funzionasse per combattere SARS e MERS ma anche per il nuovo coronavirus che, sapevano, sarebbe inevitabilmente arrivato. Insieme, hanno svolto gran parte delle prime ricerche sul farmaco Remdesivir, attualmente in sviluppo da Gilead e in diversi studi su pazienti infetti e un altro composto antivirale, noto come NHC.
Entrambi i farmaci, sui modelli animali, sono stati in grado di bypassare, evitare o bloccare la funzione del coronavirus, e hanno contribuito a impedire al virus di replicarsi nel corpo. "Hanno funzionato in modo molto efficace su tutti i coronavirus che abbiamo testato", ha detto Denison a Carolyn Kormann, che ha al riguardo ha scritto un articolo molto articolato e accurato per la rivista newyorkese. Per completare il quadro, un’altra casa farmaceutica, sempre americana, Moderna, ha annunciato di avere bruciato i tempi. Il suo vaccino è già in fase sperimentale. Il colosso Johnson & Johnson, quello del borotalco, ha annunciato il suo vaccino per il 2021. Lo venderà a prezzi di costo finché ci sarà l’epidemia. Nell’attesa, e anche dopo, la guerra al coronavirus sarà lunga e dura. Sembra di vivere in un film dell’orrore, Andromeda, dal romanzo di Michael Crichton. Nel 1971, mezzo secolo fa, aveva previsto tutto. Non siamo, come invece scriveva Crichton, in un esperimento di guerra batteriologica andato male. Ma gli ingredienti di un panico mondiale ci sono tutti. La lotta è contro un nemico invisibile, inafferrabile: in una testa di spillo trovano posto 100 milioni di batteri. Il nuovo coronavirus è un killer sfuggente.
È un ceppo assolutamente sconosciuto, mai visto prima d’ora, è un mistero in cui c’è ancora molto da scoprire, scrive Carolyn Kormann. Per ora, c’è solo un modo per difendersi: starsene chiusi in casa, isolati, senza rapporti con i nostri simili. E se rapporti ci devono essere, siano da almeno un metro di distanza. Con mascherina protettiva. In attesa che gli scienziati, nei laboratori dei centri di ricerca e delle case farmaceutiche, trovino la formula giusta, pare ci sia solo un rimedio: l’autosegregazione. C’è però da notare una grande differenza rispetto al passato. Nei secoli e millenni scorsi, quando scoppiava una epidemia, non c’era niente da fare, se non pregare o prendersela con gli untori. La peste nera, nel 1300, tagliò di un terzo la popolazione dell’Europa. In tutto il mondo, erano massimo 400 milioni. Ora siamo 7 miliardi, in aumento. Firenze, una delle più popolose città del tempo, contava 120mila abitanti, oggi Beijing, Pechino, ne ha 20 milioni. Torneremo indietro di secoli? Beppe Grillo lo sperava. Ma il suo silenzio fa ritenere che abbia cambiato idea. Grazie alla scienza, figlia del progresso industriale che a finanzia, il mondo è stato capace di reagire rapidamente, come si è visto sopra.
L’articolo di Carolyn Kormann è un compendio di quanto si deve sapere sul coronavirus. L’attacco del pezzo dà i brividi. Per millenni, scrive, un parassita senza un nome ha vissuto felicemente tra i pipistrelli ferro di cavallo nel sud della Cina. I pipistrelli si sono evoluti al punto da non notarlo; hanno continuato i voli notturni senza preoccuparsi. Si è scoperto che i coronavirus e altre famiglie di virus sono evoluti insieme ai pipistrelli per l’intero arco della civiltà umana, e forse molto più a lungo. Un giorno, il parassita – un antenato del coronavirus, sars-CoV-2 – ebbe l’opportunità di espandere il suo dominio. Forse era un pangolino, il formichiere, una specie in pericolo che è vittima di un incessante traffico di animali selvatici e venduto, spesso di nascosto, nei mercati di animali vivi in tutto il sud-est asiatico e in Cina. Per sopravvivere in una nuova specie, il virus ha dovuto mutare radicalmente. Più recentemente, il coronavirus ha trovato una nuova specie: la nostra. Forse un viaggiatore stanco si è stropicciato gli occhi o si è grattato il naso o ha mangiato ansiosamente le unghie. Una minuscola, invisibile particella di virus. Un volto umano. Ed eccoci qui, a combattere una pandemia.
È stato nel 2003, in seguito all’epidemia SARS, che gli scienziati hanno scoperto per la prima volta che i coronavirus provengono dai pipistrelli. Jonathan Epstein, un epidemiologo dell’EcoHealth Alliance di New York che studia virus zoonotici – quelli che possono passare dagli animali alle persone – faceva parte di un gruppo di ricerca che andava alla scoperta della fonte nella provincia cinese del Guangdong, dove si erano verificati focolai simultanei, il che faceva pensare a molteplici passaggi dagli animali alle persone. Una volta che un coronavirus contagia una persona – posizionandosi nel sistema respiratorio superiore e dirottando l’hardware della cellula – si replica rapidamente. A differenza di altri virus RNA, tuttavia, quando si replicano i coronavirus hanno una certa capacità di verificare la presenza di errori. In realtà hanno un enzima che corregge gli errori. Quando il sistema immunitario finalmente registra la sua presenza, può andare in overdrive, il tessuto polmonare si gonfia e si riempie di liquido. La respirazione è limitata, così come l’arrivo di ossigeno. La risposta immunitaria dell’ospite viene attivata a un livello estremo, fino a quando il corpo non subisce uno shock. È quasi come una malattia autoimmune: il sistema immunitario attacca parti del corpo che non dovrebbe.
Questo tipo di reazione potrebbe essere il motivo per cui gli anziani sono, nel complesso, più vulnerabili a covid-19, così come lo sono stati all’epidemia SARS nel 2003. Studiando la SARS nei modelli di topi, gli scienziati hanno osservato un fenomeno noto come "senescenza immunitaria", in cui i topi più anziani non avevano più la capacità di rispondere in modo equilibrato a un nuovo virus; la reazione eccessiva del loro sistema immunitario ha poi causato una malattia ancora più grave. Un virus si riproduce per liberarsi del suo ospite attraverso muco, catarro e persino il nostro respiro: il più presto possibile, in grandi quantità, in modo che possa continuare a diffondersi. Il coronavirus sembra essere un geniale "seminatore". Ed è questo il motivo per cui le persone infette trasmettono il coronavirus a ritmi sostenuti e prima di sviluppare i sintomi. Uno studio ha scoperto che nei casi più gravi (che richiedono il ricovero ospedaliero), i pazienti hanno eliminato il virus dalle vie respiratorie nel giro di trentasette giorni.
Fuori da un ospite, nel purgatorio parassitario, un virus è inerte, non del tutto vivo, ma neppure morto. I ricercatori della Virus Ecology Unit of Rocky Mountain Laboratories, in Montana, una struttura collegata al National Institute of Allergy and Infectious Diseases, hanno scoperto che il virus può rimanere sul rame per quattro ore, sul cartone per ventiquattro ore e su plastica o acciaio inossidabile per un massimo di tre giorni. Non solo: hanno inoltre scoperto che il virus può sopravvivere, per tre ore, fluttuando nell’aria, trasmesso dalle minuscole goccioline del respiro che una persona infetta espelle quando starnutisce o tossisce. La finestra di infezione è massima nei primi dieci minuti. Il coronavirus entra nel corpo attraverso la bocca, gli occhi e il naso, poi si dirige nei polmoni, dove si riproducono le particelle. Viene trasmesso alle altre persone principalmente attraverso la tosse e lo starnuto. Il virus è presente nel corpo anche dopo che una persona si sente meglio.
Un nuovo studio pubblicato su Lancet, basato sulla ricerca cinese, ha scoperto che la durata media del tempo in cui il virus rimane nel tratto respiratorio di un paziente, dopo l’inizio dei sintomi, è di 20 giorni. Tra i pazienti sopravvissuti, il virus ha continuato a essere diffuso per un periodo compreso tra gli otto e i 37 giorni. I ricercatori hanno utilizzato un nebulizzatore per vaporizzare il virus, ma in un contesto naturale il virus non si diffonde attraverso le particelle di aerosol. Alcuni trattamenti ospedalieri, attraverso l’aerosol possono trasmettere il virus ma il modo principale in cui il virus si diffonde è attraverso le goccioline, ad esempio quando qualcuno starnutisce o tossisce. Goccioline che possono percorrere anche 1,800 metri. Man mano che il coronavirus si sta diffondendo, il semplice atto di toccare una superficie è diventato una delicata questione di analisi del rischio. Il mondo è pieno di superfici sospette. È sicuro toccare lo sportello del bancomat? O la cassa automatica del supermercato o ancora un pacco arrivato per posta?
Tuttavia, la durata di alcuni coronavirus su una superficie non significa che sia contagiosa con il passare delle ore. All’esterno di un ospite vivente, la maggior parte delle particelle di virus si degradano in pochi minuti o ore e la quantità di particelle infettive nel tempo diminuisce in modo esponenziale. Sebbene sia teoricamente possibile che una persona si infetti un giorno o due dopo che un contagiato ha depositato su una superficie delle particelle di virus (ad esempio starnutendo), è molto più probabile che ciò avvenga nelle prime due ore dopo lo starnuto. La finestra di infezione è massima nei primi 10 minuti o un’ora o due ore. Una preoccupazione diffusa è che un pacchetto arrivato per posta possa essere essere un vettore della malattia: è molto improbabile, ma non c’è mai rischio zero se la persona che consegna il pacco ci ha starnutito sopra un secondo prima. Un virus è inerte e probabilmente non realmente vivo al di fuori di un ospite: inizia a riprodursi solo quando invade una cellula e prende il controllo.
All’esterno, su una superficie inanimata, il virus perde gradualmente la capacità di essere un agente infettivo. Ad esempio, potrebbe seccarsi, degradarsi se esposto alle radiazioni ultraviolette del sole. Una persona che starnutisce su una superficie può depositare molte migliaia di particelle virali e alcune possono rimanere vitali per giorni. Tuttavia, la probabilità che una persona entri in contatto con i resti di quello starnuto, nel tempo diminuisce poiché la maggior parte delle infezioni è il risultato di una grande carica virale. Covid-19 si diffonde principalmente attraverso il contatto diretto da persona a persona. Potrebbe essere possibile che una persona si contagi toccando una superficie o un oggetto su cui è presente il virus e poi toccando la propria bocca, il naso o gli occhi, ma ciò non è considerato il modo principale in cui il cui si diffonde il virus.