Un mese dopo l’arrivo del coronavirus l’Uruguay si interroga sul suo futuro e di come si cercherà di uscire da questa condizione di semi-quarantena volontaria. Era il 13 marzo -meno di due settimane dopo l’assunzione del nuovo governo- quando il ministero della Salute confermava i primi 4 casi di quello che è stato l’ultimo paese del Sud America ad aggiungersi al lungo elenco di nazioni toccate dalla pandemia del virus partito dalla Cina.
Oggi i numeri del Sistema Nacional de Emergencias (Sinae) parlano di 9 morti e 502 positivi: tra questi 286 sono le persone guarite mentre 207 sono attualmente i contagiati. Tra questi i casi più gravi sono le 13 persone in terapia intensiva. 82 sono stati i casi riscontrati all’interno del personale sanitario di cui 39 guariti e 43 ancora positivi. Pocitos e Carraso, i quartieri benestanti di Montevideo, raccolgono quasi la metà dei casi della capitale (che sono la maggioranza del totale) a cui si devono aggiungere anche gli altri dipartimenti interessati: Canelones, Flores, Maldonado, Salto, Soriano, San José, Colonia, Durazno, Paysandú, Lavalleja, Rocha, Rivera e Río Negro.
La mappa del paese ci mostra un territorio quasi coinvolto ad eccezione di pochi dipartimenti. Fino ad ora sono stati realizzati 11.239 test, un numero questo che è notevolmente cresciuto negli ultimi giorni rispetto alle prime settimane. L’esecutivo assicura che il sistema sanitario è preparato ad affrontare l’emergenza e non corre il rischio di collassare come successo altrove. L’Uruguay può contare su circa 900 posti in terapia intensiva e, in base alle previsioni del presidente Lacalle, per colmare la capacità di risposta del sistema sanitario si dovrebbe arrivare orientativamente sugli 8.700 casi. Nel frattempo è stata già avviata una campagna di vaccinazione di massa contro l’influenza stagionale. Secondo gli esperti i numeri elencati dimostrano un panorama moderatamente positivo almeno per adesso.
L’incognita è rappresentata dall’inizio della stagione invernale e l’inevitabile aumento delle infezioni respiratorie. Quando arriverà questo atteso picco? A differenza delle decisioni drastiche adottate da tantissimi paesi come la vicina Argentina, il governo uruguaiano ha preferito una strategia soft per contrastare la diffusione del virus Sars-Cov-2. L’esecutivo ha scommesso sulla buona volontà e il senso civico della sua popolazione preferendo la via del dialogo, dell’esortazione e del buon senso ripetuto costantemente attraverso le conferenze stampa e le campagna pubblicitarie. Tra le misure adottate c’è la sospensione degli eventi massivi e in particolare il calcio, la chiusura delle frontiere, delle scuole e dei centri commerciali insieme a poco altro.
La preoccupazione per la settimana Santa, tradizionale appuntamento per fomentare il turismo interno, è trascorsa senza particolari inconvenienti. La strategia del governo di Lacalle Pou è chiarissima: c’è da difendere l’economia che dava già da tempo segnali di preoccupazione e che inevitabilmente soffrirà adesso le maggiori conseguenze di questa emergenza. La gestione della crisi è apprezzata dalla maggior parte della popolazione come indicano tutti i sondaggi: tra questi, uno realizzato dalla società Ipsos colloca Lacalle Pou al primo posto tra i presidenti in America Latina con un tasso di approvazione del 59%. Anche l’opposizione del Frente Amplio si allinea almeno sul piano sanitario pur chiedendo l’aumento del numero di tamponi per cercare di scovare gli asintomatici. "Non possiamo eliminare il virus, dobbiamo immunizzarci poco a poco" ha dichiarato pochi giorni fa in un’intervista a El Observador il direttore generale del ministero di Salute Pubblica Miguel Asqueta aprendo un vespaio di polemiche.
Secondo Asqueta bisogna iniziare a riaprire progressivamente alcune attività in modo da sviluppare gli anticorpi tra le persone. Ovviamente ci dovrà essere "la massima cautela" dato che la conseguenza sarà quella di far ammalare tantissime persone. L’esperto ha comparato la situazione con un rubinetto: "Bisogna aprirlo e chiuderlo affinché il numero di contagiati non si dispari e stando attenti per evitare il collasso delle strutture sanitarie". Ufficialmente l’Uruguay non ha ancora aderito a questa strategia anche se ci sono diversi segnali che fanno pensare il contrario. L’impressione è che la via tracciata da Asqueta è quella che seguirà il governo a meno di una crescita esponenziale dei casi: basta pensare alla riapertura, da questo lunedì, dei cantieri nel settore della costruzione e a quello delle scuole rurali a partire da mercoledì 22 aprile.
Più delicato è il secondo caso. Inizialmente il governo aveva previsto la riapertura di 973 scuole rurali ma, in seguito, la misura è stata dimezzata in base ai controlli sanitari e strutturali. Circa 500 saranno le scuole nell’interno che riapriranno le porte da mercoledì per tre giorni a settimana dalle 9 alle 12:30. Si tratta più che altro di una grossa necessità come aveva ammesso lo stesso ministro di Educazione e Cultura Pablo Da Silveira parlando di ""giustizia sociale" verso gli alunni delle scuole rurali, vittime dimenticate di questa crisi: per molti di loro l’unica fonte di alimentazione è la scuola che garantisce inoltre la connessione a internet vitale anche per poter continuare l’insegnamento a distanza che altrimenti perderebbero.
Oltre all’aspetto sanitario, il coronavirus in Uruguay preoccupa soprattutto per le conseguenze che avrà su un’economia che presentava già segnali di preoccupazione. In meno di un mese, tra il 16 marzo e il 3 aprile aprile, il BPS (Banco de Previsión Social) ha già ricevuto oltre 100mila richieste di cassa integrazione, una minima parte di un problema molto più grande: il ministro del Lavoro Pablo Mieres ha assicurato l’esistenza di più di 400 lavoratori informali e più di 80mila lavoratori autonomi con partita iva, un esercito di persone che verrà escluso dai sussidi. La disoccupazione intanto è volata al 10,5%, il tasso più alto dal 2007, ma il dato è fermo al mese di febbraio e tutto sembra indicare che continuerà a crescere in futuro.
di Matteo Forciniti