Le nomine alla e nella Rai hanno sempre avuto una terribile ritualità. Chiamata, rubando il termine alle cose agrarie, "lottizzazione". Ma anche le parole hanno le loro stagioni e si sfiatano con il tempo. Quella categoria si riferiva ad un’età che vedeva una chiara e sostanziosa presenza dei partiti. Che si ingerivano, eccome, ma disponevano generalmente di panchine lunghe ed assortite da cui estrarre i nomi. Qualche volta si trattava di professionisti capaci, in tanti casi purtroppo no. Ma, al di là delle qualità delle persone prescelte, va detto che il metodo non era una mera patologia, bensì una sorta di modello organizzativo. Una caratteristica quasi fondante di un apparato abituato a muoversi nei pressi del sistema politico, spesso persino anticipandone tornanti e mutamenti. Sempre con notevole influenza sul clima di opinione e sulla sua formazione. Da un po’, però, soprattutto da quando il sistema dei partiti si è indebolito ed è stato sostituito da gruppi di potere (Capi politici e loro staff, salotti, consorterie che siano), il modello si è incrinato. Non solo. L’ultima leggina del dicembre del 2015 (Renzi imperante) ha dato all’amministratore delegato un potere pressoché assoluto. Che, in verità, i nominati dell’ultimo periodo non hanno saputo neppure utilizzare. Al punto che l’attuale ad – Fabrizio Salini – è in odore di trasloco altrove. (Netflix?). Con il risultato, però, di indebolire il consiglio di amministrazione. E un’ipotetica battaglia delle idee. Insomma. La combinazione tra una governante così squilibrata e la debolezza del contesto politico hanno creato una miscela insidiosa e arrischiata: pure nella gestione dell’apparato. Infatti, al di là di ogni giudizio (comunque negativo), come si fa ad invocare la mattina la cultura aziendale e sostituire la sera la direttrice del Tg3 che ha fatto bene, secondo un giudizio diffuso? O l’omologa della terza rete, nominata solo poche settimane or sono? Non si uccidono così anche i cavalli?, recitava un famoso film. E poi. Il conclamato piano industriale, esibito come fiore all’occhiello dal vertice attuale e che supponeva di surdeterminare reti e settori con direzioni orizzontali e tematiche, è finito ormai in qualche soffitta. Se è vero che una parte di coloro che dovevano assumerne la responsabilità è stata destinata altrove. E’ vero che una donna stimata come Simona Sala è assurta alla direzione del Gr e di Radio 1, ma altre due – Giuseppina Paterniti e Silvia Calandrelli – hanno curiosamente cambiato collocazione. Quindi, neppure di vera lottizzazione si può parlare. E ancora minore è la presenza delle donne nei luoghi di comando. Si tratta, in verità, di una non brillante prova di forza. Tra l’altro, se doveva sancire i nuovi rapporti di forza scaturiti dal governo Conte 2, l’inerzia è stata proprio lunga. Non dimentichiamo che il simbolo precedente – il presidente Foa – lì rimane malgrado gaffe e clamorose sviste. Per carità di patria evitiamo di scrivere sulla lavagna i vari nomi e cognomi, perché non si vuole offendere, bensì urlare contrarietà e indignazione. Infine, una questione di stile. In età di drammatica resilienza al Covid-19 e di impoverimento sociale crescente, il servizio pubblico dovrebbe ben altrimenti destreggiarsi nella crisi conquistandosi reputazione e credibilità. Attenzione. Tra l’attacco sferrato in commissione parlamentare di vigilanza (sulla base di una bizzarra delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni sulla pubblicità) e la sgradevolezza della scena post-lottizzatoria, i piani alti di viale Mazzini dovrebbero seriamente preoccuparsi. Indebolire la Rai per privatizzarla è un disegno che cova sotto le ceneri da trent’anni. Il sindacato dei giornalisti dell’azienda ha preso una posizione dura ed efficace. Ma è legittimo attendersi qualche girotondo.

di VINCEZO VITA