Lo Statuto dei lavoratori compie 50 anni ma non li dimostra, meglio non li dimostra quella parte, importante, che non è stata modificata dai tanti troppi interventi delle fatidiche "riforme" del mercato del lavoro che hanno riportato indietro, molto indietro le lancette dell’orologio. Nel 1970, sull’onda delle grandi lotte dei lavoratori e delle lavoratrici, il Parlamento del nostro paese decise che la Costituzione e la cittadinanza erano un diritto universale, che nessun luogo di lavoro poteva essere una zona franca dal quel principio fondante del nostro diritto costituzionale che è la libertà. Libertà di opinione, divieto di indagine, non discriminazione sono il filo rosso che collega le norme dello Statuto dei lavoratori. Non è casuale che le norme considerano il lavoratore come il soggetto, mai compare la dizione risorse umane, quel modo di dire ormai diffuso che lo trasforma in una risorsa tra le altre, equivalente alle altre, mentre il lavorio è cittadinanza non un costo tra gli altri.
Come sempre il linguaggio è rivelatore del pensiero, quello della legge 300/70 è inequivoco, e preciso. Il lavoratore deve essere libero, e si tutela quella sua libertà anche nei particolari, per esempio le visite mediche e l’impedimento che siano forme di controllo, di invasività della vita personale e delle scelte singole. Quanta importanza ha avuto ed ha, per esempio per le lavoratrici, il diritto di scegliere sulla maternità senza che intervenissero discriminazioni, anche se dopo 50 anni c’è chi non ha ancora compreso il valore di quella scelta e cerca di esercitare un controllo sulla libertà della lavoratrice o del lavoratore, per esempio attraverso le dimissioni in bianco. La libertà, ci dice lo Statuto non è solo un fatto individuale, la cittadinanza è compiuta se puoi esercitarla, è quindi il diritto di organizzazione, libero nella scelta del lavoratore, libero nell’esercizio sindacale con il divieto dei sindacati di comodo. La libertà esercitata in autonomia che il datore di lavoro non può mettere in discussione come non può mettere in discussione le tue opinioni o discriminarti per alcuna ragione.
Ci sono così le premesse per l’applicazione dell’art 39 della Costituzione, ma ci sono le condizioni per determinare la contrattazione su un piano paritario e, se non fosse sempre stata ostracizzata dalle controparti, la partecipazione. È questo che non ha più compreso il legislatore quando è intervenuto nel modificare lo Statuto, che ha manomesso in quattro aspetti importanti, il controllo a distanza, il demansionamento, il diritto alla reintegra nel licenziamento illegittimo, e prima ancora nel collocamento. Il filo conduttore di quelle modifiche era meno potere ai lavoratori, più potere discrezionale alle imprese, era negare il fondamento dello Statuto. La tua cittadinanza è piena se non sei in svantaggio sistematico nei rapporti di forza. Come il suffragio universale, conquistato non molti anni prima in Italia, cosi divieto di discriminazione e libertà di organizzazione rappresentano un riequilibrio che permette di agire in condizione di parità, perché ciò che determina l’assolvimento del contratto di prestazione è nelle regole e nei doveri del lavoro che sono codificati e non devono scalfire la tua cittadinanza.
Sono proprio le prime due parti dello Statuto che hanno impedito che le norme successive rappresentassero un compiuto venir meno di quella cittadinanza; anche se la linea proposta dalla non discriminazione è ancora poco familiare alle stesse organizzazioni sindacali che si devono muovere su un terreno meno esplorato, in particolare nel nostro paese, e fare i conti con problematiche spesso trascurate come le diversità. Quale è invece il limite dello Statuto, oggi, che i tanti riformatori volutamente non hanno visto? Il limite è che la platea del lavoro non è più quella degli anni ’70. Deregolamentazioni su deregolamentazioni hanno determinato che le forme contrattuali sono ormai quasi infinite e la fattispecie del lavoro subordinato non è più la regola universale per il lavoro dipendente. Anzi spesso si è lavoratori dipendenti e contrattualmente autonomi; lo ribadiscono continuamente i padroni delle piattaforme mentre danno ordini di servizio via smartphone.
Questo è, invece, uno snodo fondamentale per il lavoro, nel linguaggio internazionale lo si definisce il lavoro informale, la cui platea mondiale supera di gran lunga quella del lavoro tutelato è il bacino del lavoro povero, precario, invisibile, quello che riscopriamo, improvvisamente in epoca di pandemia. Il lavoro di subfornitura, quello dei servizi e di cura, spesso il lavoro delle donne e dei migranti. Un buon programma, imparando anche da questa epoca che ci conferma crudelmente che le diseguaglianze sono alla base di un modello sociale, economico ed ambientale non più sostenibile, sarebbe ridare universalità a quei principi di libertà inderogabili dello Statuto, affermando che i diritti del lavoro sono in capo ai lavoratori e alle lavoratrici non alle loro forme contrattuali. Tutti cittadini e tutti visibili.
La Cgil ha elaborato una proposta di legge, la carta dei diritti universali del lavoro, l’ha presentata con il supporto di un milione e mezzo di firme: quella che continua a mancare è la volontà politica di attuarla. Non attuarla è l’assenza del coraggio di una sinistra, di un pensiero riformista; è restare ripiegati sulla correzione delle virgole al liberismo invece di impegnarsi nella ricerca di un progetto di trasformazione fondato sulla giustizia sociale. La prima proposta di Statuto dei lavoratori fu fatta da Giuseppe Di Vittorio nel 1952, nel 1970 la legge. Sono gli anni dello sviluppo industriale della trasformazione e della centralità operaia; gli attuali sono gli anni di una nuova rivoluzione, quella digitale, che individualizza ulteriormente il lavoro, che può produrre, se non governata grandi e ulteriori diseguaglianze o se, giustamente accompagnata, produrre qualità e formazione del lavoro. Il tempo è adesso!
Susanna Camusso