L’inferno a Taranto. "La fabbrica è già morta", la città e i suoi operai si sentono traditi, presi in giro da promesse mai mantenute. Taranto è preda di una paralisi che ha un nome preciso: disperazione. In rivolta i sindacati, tra denunce e minacce. Chiaramente non ci stanno. Increduli tutti, la città, gli operai, i sindacati: ArcelorMittal ha annunciato un piano dagli effetti immediatamente scioccanti. Perché è un vero shock il piano per l’ex Ilva, cinquemila esuberi, uno meno o uno più. All’ArcelorMittal di Taranto lavorano ottomila dipendenti. Il gruppo siderurgico ne conta in tutto dodicimila distribuiti nelle varie sedi. Ma come spiegare il clamoroso annuncio di ArcelorMittal? Questo taglio poderoso, definitivamente tranciante? La multinazionale chiede la garanzia statale su un prestito di 600 milioni, un miliardo dallo Stato in forma di ricapitalizzazione, più un ulteriore miliardo tra contributi pubblici vari. Nello stabilimento tarantino si produce ora circa la metà di quanto veniva prodotto ai tempi della gestione Riva. Sette tonnellate e mezzo di acciaio vengono fuori dallo stabilimento oggetto di una esistenza tormentata ormai da anni. La storia scandita dai tormenti comincia nel 2012. La magistratura di Taranto dispone il sequestro dell’acciaieria per gravi violazioni ambientali. Finiscono sotto inchiesta i dirigenti e la famiglia Riva, che aveva rilevato il gruppo Ilva dallo Stato. L’acciaieria viene commissariata nel 2015. E ammessa alla procedura in amministrazione straordinaria. Il bando di gara nel 2016 e nel 2017 il passaggio di Ilva al vincitore, ArcelorMittal. Ma il rilancio dell’Ilva non viene attuato. Due gli impedimenti: le alterne condizioni del mercato e i difficili rapporti ArcelorMittal-Stato. I contrasti sfociano in denunce. Prima le carte bollate, poi a inizio marzo l’accordo che prevede una compartecipazione dello Stato nel rilancio dell’Ilva. Il governo appare ora visibilmente spaccato tra nazionalizzazione e accordo con il gruppo. In mezzo alle liti, il futuro di oltre 12mila lavoratori. Cuore d’acciaio del Paese, l’Ilva precipita ancora una volta. Fatale l’innesco di tensioni sociali che spaccano il Governo. Mentre il futuro immediato dell’ex Ilva, l’acciaieria più grande d’Europa, è avvolto in una gigantesca nebulosa. Uno degli altiforni, il più grande, mai più attivato, fermo dal 2015. Mittal prevede Domani lo sciopero negli stabilimenti del Gruppo Arcelor Mittal perciò una produzione a regime nel giro di tre/cinque anni di sei milioni di tonnellate annue, con due altiforni più uno di riserva. Sempre a regime, il piano prevederebbe 7.500 occupati diretti e un totale di 4.900 esuberi. Oltre 3.200 tra i 10.700 oggi operativi, più i 1.600 in carico dall’amministrazione straordinaria, che ArcelorMittal si era impegnata a riassorbire. Lo scenario è dunque cambiato. Almeno rispetto a quanto prefigurato a inizio marzo in forza dell’accordo tra i Mittal e il Governo. Disinnescati rischio e minacce di uno scontro giudiziario, il disegno comune prevedeva un’Ilva guidata in tandem dalla multinazionale franco-indiana e dallo Stato, attraverso Invitalia. Grande obiettivo il raggiungimento di una produzione di otto milioni di tonnellate e la garanzia a regime del posto di lavoro per tutti i 10.700 operai con ammortizzatori sociali per la fase di passaggio e per i 1.600 in amministrazione straordinaria. Il coronavirus ha sparigliato le carte, mandando tutto gambe all’aria. Mittal starebbe tentando di rivedere il piano industriale, non escludendo la possibilità di sfilarsi dalla partita. Operazione peraltro prevista dagli accordi dietro pagamento di una penale di cinquecento milioni. More solito, il Governo si è fatto trovare impreparato. E diviso. Come ha avuto modo di constatare il ministro dello Sviluppo Economico, Stefano Patuanelli. "L’ingresso dello Stato nella ex Ilva è quasi inevitabile. Se ArcelorMittal ha deciso di farsi da parte, se ne vada, e finiamola qui". Un gran casino, a voler usare un semplice eufemismo. Il Mise vedrebbe di buon occhio una sostanziale nazionalizzazione dell’Ilva; il ministro Gualtieri si batte invece per trattenere Mittal in Italia, con il supporto dello Stato. Nel rispetto delle coordinate dell’accordo di marzo. Mentre i sindacati, esclusi da tutto, sono sul piede di guerra. La Fiom contesta intanto il piano shock annunciato da ArcelorMittal. Cinquemila esuberi. "Piano inaccettabile. IL comportamento dell’azienda è spregevole. La situazione è esplosiva". Rappresentanti dell’indignazione operaia, Uilm e Fim vanno sul pesante. "Complimenti a chi ha tolto lo scudo penale la scorsa estate e ha regalato un alibi all’azienda per disimpegnarsi". I sindacati andranno martedì al Mise. Ma il Governo è diviso, per l’acciaio monta il rischio paralisi. Anche Terni è praticamente ferma. L’Italia è priva in assoluto di un piano per la siderurgia.
di FRANCO ESPOSITO