Il movimento Black lives matter che sta imperversando nelle ultime settimane dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis il 25 maggio, oltre alla sacrosanta questione della discriminazione razziale ne sta ponendo una un po’ più controversa: quella dell’iconoclastia antirazzista. Testimonianza di questo meno nobile aspetto è la vandalizzazione e, in alcuni casi l’abbattimento di statue di illustri personaggi del passato tacciati dagli attivisti (a torto o a ragione) di simpatie razziste. Lo scorso 7 giugno, era toccato alla statua di Edward Colston, mercante di schiavi e filantropo nella Bristol del 17esimo secolo, eretta nel 1895.
I manifestanti avevano usato delle corde per tirare giù il monumento dal piedistallo per poi gettarlo nel porto della cittadina inglese. In un crescendo di furore alimentato dal tam tam dei social altri manifestanti, questa volta a Londra, lo stesso giorno avevano imbrattato una statua dell’eroe nazionale, Winston Churchill con la scritta "was a racist" – era un razzista. In questi giorni a fare le spese di questa furia sono le statue di Cristoforo Colombo, fino a pochi anni fa osannato esploratore (il Columbus day è una delle festività più amate negli States) e ora vituperato come il feroce autore del genocidio dei nativi americani. In diverse città degli Stati Uniti i monumenti al navigatore genovese e scopritore dell’America, sono stati abbattuti: è successo a al Byrd Park a Richmond in Virginia, poi a Boston in Massachusetts dove una statua è stata decapitata. Azioni che sembrano far parte di una più ampia strategia del movimento che ha stilato una lista di 60 statue da abbattere in quanto simboli "di schiavitù e razzismo".
Non basta: il sito StopTrump Uk ha addirittura creato una mappa interattiva con oltre 50 obiettivi (statue, busti, targhe) sparsi nel Regno Unito eretti in memoria di celebri personaggi vissuti nei secoli scorsi e che ora, per un motivo o per l’altro, sono additati come schiavisti o razzisti. Una lista ‘apertà alla quale chiunque può aggiungere altri bersagli. Anche il sindaco di Londra, Sadiq Khan, è sceso in campo annunciando la creazione di un gruppo di lavoro che esaminerà statue, monumenti e la toponomastica per verificarne l’adesione ai valori dell’anti razzismo. Un’onda che ha coinvolto anche il Belgio dove a finire sotto accusa (in realtà non da ora) è stata la figura del re Leopoldo II, autore della sanguinosa colonizzazione del Congo nella seconda metà del 19esimo secolo. La città di Anversa ha rimosso una statua dell’ex sovrano e si stanno valutando altre iniziative analoghe nel Paese. Anche in Italia non mancano i paladini del Black lives matter. A Milano un movimento autodenominatosi Sentinelli ha chiesto ieri con una lettera al sindaco Giuseppe Sala e al consiglio comunale di rimuovere la statua di Indro Montanelli dai giardini pubblici del capoluogo lombardo.
Motivazione, il presunto razzismo venato in questo caso di pedofilia per via della vicenda, raccontata dallo stesso Montanelli, della 12enne eritrea acquistata durante la campagna di Abissinia nel 1935. Tutti fatti che hanno inevitabilmente acceso il dibattito sull’opportunità (vandalismi a parte) di tali azioni. Ragionando sulla falsariga del politicamente corretto incapace di contestualizzare le epoche storiche, fa infatti notare più di un osservatore, si rischierebbe infatti di mandare al macero buona parte della letteratura antica (Dante Alighieri e la sua Divina Commedia in primis), distruggere tutte o quasi le vestigia risalenti all’epoca romana e così via. Di opere d’arte ne resterebbero davvero poche.
Un po’ come mettere sullo stesso piano l’abbattimento della statua di un dittatore deposto da parte del suo popolo e la distruzione dei Budda di Bamyan a colpi di dinamite da parte dei Talebani afgani nel 2001. Negli Stati Uniti in particolare, la questione si è inevitabilmente trasferita sul piano della polemica politica con la pioggia di critiche caduta sul presidente Trump e la speaker della Camera Nancy Pelosi che ha chiesto di rimuovere le statue di personaggi della Confederazione del Sud da Capitol Hill in quanto simboli di una cultura razzista contraria agli ideali americani. Inevitabili le repliche secondo le quali queste posizioni strumentali allo scopo di voler cavalcare l’onda tanto più che Minneapolis e il Minnesota, dove con l’uccisione di George Floyd è scoccata la scintilla della protesta, sono da molti anni un feudo democratico.