Gente d'Italia

In Italia si ritorna a nazionalizzare: è giusto?

Tra mille tentennamenti e senza un vero piano, il Governo Conte sta ridisegnando il Paese e lo fa tornando a nazionalizzare. Siamo di fronte ad un cambio di passo che, contrariamente a quanto avvenuto in passato, non sembra destare grande scandalo. Prendiamone atto, potrebbe esserci del buono, cerchiamo di capire sotto quali condizioni potrebbe realizzarsi uno scenario virtuoso. Sono quattro i dossier caldi su cui il governo è chiamato a trovare una soluzione: Alitalia, Autostrade, ILVA, Rete a banda larga.

ALITALIA Sotto pressione da parte delle compagnie low cost e messe i ginocchio dal Coronavirus, tutte le compagnie europee stanno facendo ricorso al supporto pubblico. Il caso Alitalia è di più lunga memoria, andiamo indietro al 2008 con i Capitani coraggiosi, il tentativo di Etihad, ecc. Siamo di fronte ad un pozzo senza fondo, solo negli ultimi anni di commissariamento e solo per farla sopravvivere, lo Stato ha iniettato 1.500 milioni. La società è già nazionalizzata ma dobbiamo trovargli un futuro. La strada che il Governo sta battendo sembra essere quella dello spezzatino, dividendo la parte aviazione, manutenzione e handling, e creando una bad company, con almeno 2000 esuberi, e una good company. Per quest’ultima si cerca un partner (candidato numero uno Lufthansa), mentre per la bad company si prospetta la necessità di un sostegno pubblico per alleviare le ricadute occupazionali. Insomma lo Stato ripulisce la società, si accolla gli oneri sociali e cerca di affidarla a qualcuno che sa fare il mestiere. Punti dolenti: per fare contenti tutti si spenderanno ancora tante risorse, speriamo inoltre di trovare un partner affidabile.

AUTOSTRADE Lo spaccato che è emerso dopo il crollo del ponte di Genova (mancati controlli e intercettazioni) non può lasciare indifferenti, una reazione dello Stato è più che giustificata. La nazionalizzazione assume però i contorni di un esproprio punitivo verso gli attuali proprietari (Atlantia e i Benetton). Siamo di fronte ad un rendita di quasi-monopolio con un regime tariffario assai vantaggioso. Occorre prendere atto dei limiti che la politica ha avuto (almeno in Italia) nel regolare un asset come questo: l’opacità nel rinnovo delle concessioni autostradali non è stata una gran bella pagina. La strada perseguita dal governo è quella di fare entrare Cassa Depositi e Prestiti e investitori istituzionali nostrani a lungo termine. Il punto critico è rappresentato dal contenzioso legale con Atlantia che potrebbe portare ad una penale salata.

ILVA L’ILVA di Taranto è al centro di uno scandalo enorme sul fronte ambientale, l’azienda è commissariata e il suo futuro è stato affidato ad ArcelorMittal che sembra aver cambiato le carte in tavola nel corso del tempo richiedendo esuberi, un ridimensionamento della produzione e un allentamento sul fronte ambientale. Non si capisce bene se Arcelor si è resa conto di difficoltà insormontabili o, più semplicemente, vuole ridimensionare Taranto. L’entrata dello Stato nella società (non si sa con che ruolo) rappresenta lo scenario più probabile, teniamo conto che ILVA coinvolge 15.000 occupati e che il suo acciaio è importante (ma non insostituibile) per la nostra industria.

RETE FIBRA OTTICA La partita è lunga e risale al governo Renzi con il lancio OpenFiber da parte di ENEL, più di recente Cassa Depositi e Prestiti è entrata in Telecom. La situazione è segnata da una impasse che deve essere sbloccata: Telecom non è di fatto governata da almeno tre anni, OpenFiber è in ritardo, le gare per la copertura delle diverse aree hanno mostrato tutti i loro limiti. Gli investimenti sono in ritardo pregiudicando la costituzione di un asset fondamentale per lo sviluppo del paese. Non è possibile avere troppi attori sulla scena: occorre un unico soggetto. La strada battuta dal governo è complicata da perseguire: mettere insieme le reti Telecom e ENEL con una componente pubblica nel capitale, la presenza di fondi infrastrutturali e tenendo dentro la partita Telecom che non può essere espropriata del suo asset principale, il tutto garantendo la terzietà per gli altri operatori. Se questo è il quadro dobbiamo domandarci se sia giusto nazionalizzare e se sia giusto farlo come si sta cercando di fare. E’ ben noto che per gli economisti il controllo pubblico può funzionare meglio del privato in alcuni casi: quando si tratta di un’infrastruttura che produce benefici che vanno aldilà del bene prodotto (per capirsi una rete autostradale produce benefici indiretti che vanno aldilà del singolo pedaggio), quando c’è una posizione di monopolio, quando l’esercizio del controllo proprietario assume una rilevanza importante (si pensi al servizio sanitario nell’emergenza Coronavirus o alla difesa nazionale). I questi casi parliamo spesso di ‘‘bene pubblico’’ e un intervento dello Stato ben organizzato può essere efficace dal punto di vista dell’efficienza del sistema. A queste considerazioni dobbiamo aggiungere il fallimento della regolamentazione che dovrebbe sostituire il controllo pubblico: abbiamo avuto troppa fiducia nella regolamentazione, i rapporti di potere vanno spesso a favore del privato e alla prova dei fatti abbiamo verificato che le possibilità offerte dal controllo pubblico sono superiori a quelle offerte da una regolamentazione anche ben fatta. Alla luce di queste considerazioni, un intervento dello Stato, come azionista di controllo di una società quotata o in partnership con un privato, può avere un significato nel caso di Autostrade e della Rete a banda larga. I punti critici sono rappresentati, nel caso di Autostrade, dall’atteggiamento punitivo che non può andare oltre quello che è lo Stato di diritto e, nel secondo caso, dalla necessità di assicurare la terzietà della rete e, al contempo, di non pregiudicare la solidità di Telecom che è gravata da un ingente debito. Nei casi di Alitalia e di ILVA l’intervento dello Stato è meno comprensibile: l’insostituibilità di Alitalia per lo sviluppo del paese è smentita dalla copertura delle compagnie low cost e anche la centralità dell’ILVA non è così assodata. E’ difficile inoltre pensare che la produzione dell’acciaio a Taranto sia sostenibile per lo Stato italiano se non lo è per un privato. Soprattutto nel caso di Taranto c’è però un tema occupazionale che non può essere trascurato. Per fronteggiarlo è legittimo che lo Stato si impegni a fornire forme di supporto, è meno comprensibile che voglia fare l’imprenditore in due settori molto difficili che richiedono competenze che non ha. A spanne questi interventi richiederanno risorse per almeno venti miliardi, è doveroso che il Governo valuti caso per caso avendo chiari quelli che sono gli interventi di natura assistenziale (sussidi occupazionali) e quelli di sistema (Stato imprenditore) senza far finta che siano tutti virtuosi e del secondo tipo. Solo così eviterà di buttare via soldi.

di EMILIO BARUCCI

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