Sabato le donne del Pd sceglieranno la responsabile della Conferenza nazionale delle Donne. Un organismo previsto fin dalla nascita del partito e negli anni di segreteria Renzi messo da parte. Ora quel luogo, definito "autonomo" riprende vita, e secondo le intenzioni delle due sfidanti al ruolo di guida, Cecilia D’Elia e Titti Di Salvo, dovrà segnare una nuova stagione nei rapporti interni ed esterni del Pd. In effetti, al di là della formale suddivisione paritaria negli organismi dirigenti, le donne contano pochissimo, e come ricordano le stesse concorrenti, quasi sempre sono selezionate dai maschi e per fedeltà correntizia (in questo uguali agli uomini). Ere geologiche separano il Pd di Zingaretti dalle battaglie femministe degli anni ’70, dall’egemonia politica e culturale di dirigenti come Nilde Jotti, Teresa Noce, Marisa Rodano, Tina Anselmi, solo per citarne alcune. Così come rarefatte si percepiscono le campagne come la Carta delle Donne di Livia Turco o la capacità mediatica e politica di Silvia Costa e così via.
Eppure questo primo ventennio del 2000 non è passato invano, come dimostrano le tante leggi approvate a sostegno del lavoro femminile, di tutela delle donne più esposte, contro la violenza. Ma l’oggi incalza, le ragazze e le giovani dentro il Pd scarseggiano (per onestà l’unico vero partito ancora in piedi), i conflitti ideologici non mancano e sostituiscono le superate divisioni tra laiche e cattoliche. Se dalle donne può venire la forza alle donne, per copiare uno slogan delle donne PCI, tra le dirigenti, sempre più anziane (come i maschi) e sempre più provenienti dalle esperienze elettive e pochissimo dall’associazionismo e dall’articolazione dell’impegno civile e sociale, si propongono criticità identiche ai loro colleghi maschi: scarsa comprensione del concreto vivere. Ma le donne, a cui va dato atto di aver prodotto i più grandi cambiamenti sociali, culturali, civili del nostro paese, si misurano con sfide inedite, che non si accontentano delle sempre attuali di parità.
Di questo, nel carbonaro dibattito delle democratiche non emerge quasi nulla, mentre in tutto l’occidente i femminismi si fronteggiano senza esclusioni di colpi. Le donne del Pd sceglieranno le visioni transfemministe oppure si schiereranno contro ogni sostituzione del sesso a vantaggio del genere, così come stanno facendo le socialiste spagnole? Agli occhi delle più (e sicuramente di tutti i maschi democratici), trattasi di astrusità, anche perché le dirigenti Pd si sono guardate bene di assumersi questi conflitti nel confronto pubblico. Si preferisce per ora declamare che tra tutte le piattaforme femministe e femminili circolanti, sui temi concreti è possibile una sintesi, quindi un ruolo di promozione politica delle donne piddine.
Scegliere di ripristinare un luogo separato in un partito a conduzione maschile, può suscitare quella salutare "onda d’urto" chiesta a gran voce da Livia Turco, ma può anche risolversi in un pericoloso (e funzionale per i machi) recinto. L’azzardo c’è tutto, ma rischiare è necessario. Il nodo su cosa si intenda oggi per differenza, sessi, identità, generi rimane tutto e, a un certo punto, al netto delle pur comprensibili ritrosie, bisognerà scegliere. Saranno le donne del Pd a dirci come, pagandone un inevitabile prezzo, che è poi la cifra del tempo in cui siamo: chi osa può dividere, chi si nasconde mette in conto sconfitte, nel lungo periodo.