C’era un tempo in cui il mondo dei giornali e il mestiere del giornalista dominavano la scena italiana. Siamo negli anni Sessanta, il bilioso Giancarlo Fusco (La Spezia 1915 - Roma 1984), firma di punta del giornalismo italiano, autore di capolavori come "Duri a Marsiglia", si innamora della collega Floriana Maudente (Torino 1920 – Milano 2002), bolognese d’adozione, bella, raffinata, colta, poetessa, critica cinematografica della rivista cult "Cinema Nuovo", pupilla del marxista Guido Aristarco, un nome che incuteva timore per la severità dei suoi giudizi. Gli scenari del loro incontro sono proprio i festival cinematografici, da Cannes a Venezia, ma anche la Milano del giornalismo e dell’editoria. Anzi, sarà proprio Fusco a salvare la rivista di Aristarco trovando un nuovo editore, lo stravagante imprenditore Antonio Pellizzari con il quale aveva un curioso idillio ideologico.

Fusco ha alle spalle una giovinezza nelle bettole spezzine e nelle notti versiliesi. Grazie a Manlio Cancogni approda a Milano e proprio in quel periodo raggiunge l’apice nella carriera a "Il Giorno" sotto la regia di Gaetano Baldacci. Ma quando la direzione del quotidiano passa a Italo Pietra, Fusco viene messo nell’angolo a vantaggio di Giorgio Bocca e Alberto Arbasino. Lo spezzino sente che è giunto il momento di cambiare aria anche perché la sua compagna, Erina, ha fatto le valigie dopo nove anni di convivenza e se ne è tornata in Romagna in taxi. Un’altra sconfitta per lui che a Viareggio ha lasciato la moglie e la figlia. Improvvisamente il giornalista che gira con la pistola o il coltello, diventa un uomo mansueto, indeciso, oscillante, si fa sincero e amorevole verso Floriana: "Noi ci siamo incontrati bene e bene staremo insieme".

La corrispondenza tra Fusco e la Maudente è stata ritrovata da Dario Biagi e raccolta nel volume "Lettere d’amore di un eccentrico" edito da Avagliano (pagg. 123, euro 14). L’autore, che aveva già dedicato a Fusco una corposa biografia ("L’incantatore" nel 2005) è quasi sorpreso da questo lato sentimentale di un personaggio eccentrico, frequentatore della Milano di notte, un maudit della penna. Nella Roma della "Dolce vita" Fusco diventa istrionico e dirompente, gira vestito da ciclista, vive alla Pensione Manfredi, è ospite fisso di Maurizio Costanzo, tiene rubriche su impavide riviste scandalose, scriva una cinquantina di film di serie B senza mettere la sua firma, sale sul palco con Carmelo Bene vestito da esploratore, si fa persino attore nel cinema per sopravvivere. A quel periodo Fusco dedicherà il libro "A Roma con Bubù", storia dichiaratamente autobiografica di una stagione con l'amico Bubù, un marsigliese ai limiti della mala, compagno di sbronze e di nottate. Con lui decidono di trasferirsi da Milano a Roma in cerca di una diversa fortuna.

L’epistolario con la Maudente stranamente combacia con questo racconto, va dal marzo 1962 al luglio 1963, salvo un laconico telegramma spedito il primo aprile 1964 per il quarantaquattresimo compleanno della donna: "Anche le vie del ricordo". Le lettere hanno tutte intestazioni diverse: la chiama "Mio cuore", "Flomisci", "Michette", arriva a "Mia cara compagna". Lui si firma "Tuo Gian Misciù". Già nella prima missiva la sente sua dopo la scintilla scoccata a marzo: "Così, ti ho sempre con me. E sempre sarai con me, mia. Perché quello che conta, quando ci si trova, è come ci si incontra, quello che si dice nei primi cinque minuti e quello che si fa". Nella Roma confusa e papalina degli anni Sessanta Fusco si perderà come perderà l’amica e collega. Nell’ultima lettera si arrenderà: "Sono solo un eccentrico", come il titolo del libro di Biagi.

Fusco era un figlio prediletto della Marina Militare italiana. Suo padre era un ammiraglio campano, aiutante di bandiera di Aimone di Savoia, comandante in capo del dipartimento dell’Alto Tirreno, con base alla Spezia. Fusco imparò a fantastiche ascoltando gli ufficiali che facevano fluttuare storie di sbarchi eroici, sirene e naufragi, abbordaggi e bombardamenti, angiporti trasgressivi e alcove odorose. Lui abbandonò subito il circolo ufficiali e quel mondo d’élite per votarsi alla città notturna dei bordelli e dei ritrovi, delle palestre di boxe e dei tavoli da gioco, cioè "Quando l’Italia tollerava", prendendo a prestito il titolo di un suo famoso libro. La notorietà dei postriboli spezzini girava di porto in porto, di nave in nave. Fusco, detto "Il Tacito dei casini", divideva le casinanti a seconda del nome: quelle dai nomi carnosi (Brunella, Mirabella, Doriana), dai nomi melodrammatici (Fosca, Vanna, Malombra, Manon, Violetta, Ramona), dai nomi sognanti (Thea, Clizia, Colette), dai nomi tutto pepe (Titti, Beba, Dolly, Nanette, Pupa, Lulù).

In quel porto di mare i nostrani fiori del male erano boxeur falliti, marinai litigiosi, magnaccia e biscazzieri, antifascisti coraggiosi, sempre minacciati dal regime, che subito dopo la guerra divennero personaggi delusi, con i quali consumare precocemente la propria epoca. Lì conobbe anche provetti baristi con alle spalle decine di anni nei transatlantici che maneggiavano gli shaker mischiando gin e ricordi, vodka e rimpianti, acqua tonica e lacrime. Fusco narrava di avere avuto una vita avventurosa, alla Jean Gabin: pugile (campione italiano pesi gallo), ballerino di tip-tap (una mattina alle quattro fece danzare Sophia Loren al Festival del Cinema di Venezia), gangster (leggere il suo romanzo "Duri a Marsiglia"), soldato e prigioniero di guerra (leggere "Le rose del Ventennio" e "La guerra d’Albania"), partigiano, dirigente comunista, presentatore, cantante, re della Versilia notturna, notista di giornali locali prima che arrivasse a Milano (Il Mondo, L’Europeo, Cronache, Il Giorno, L’Espresso), vaticanista (leggere la biografia Papa Giovanni del 1972), scrittore, sceneggiatore e attore.

Quello autentico, invece, stava seduto al banco del Bar Fusco, a Roma, dove una nota casa vinicola scaricava ogni settimana una cassa di grappa ad un cliente tanto affezionato da meritarsi una placca pubblicitaria in latta. Soltanto alla morte di Fusco, di fronte ai ripetuti rinvii della merce, un ispettore di tale ditta appurò che il destinatario non era il titolare di un locale bensì un normale cittadino e che il bar era in realtà una semplice abitazione condominiale. Un uomo fatto di eccessi, generoso e insolente, sognatore e irregolare: così lo dipingono coloro che gli sono stati vicini. Una carriera iniziata alla Spezia dove l’editore Gastozzi (in realtà si chiamava Talozzi e non voleva avere problemi con i fascisti) pubblicò dal 1934 e ’38 "I pensieri di un maniaco", "Veleno", "2 bozze smarrite" e "Biancheria", quest’ultimo volume incorso nei censori del Duce in quanto giudicato "antisolare e distruttivo".

Durante la guerra andò a fare il militare nel 7° Genio Telegrafisti a Firenze e poi a Bologna. E siccome le guerre non finivano mai, Giancarlo era sempre richiamato. Poi venne la frustata dell’Albania e della Grecia, ben descritta nei suoi libri, e si trovò con la Julia su quel fronte maledetto. Giurava di essere stato uno dei primi a mettere piede nel palazzo reale di Tirana dove vide i cenci sporchi di sangue della povera regina che, appena partorito, dovette scappare con il neonato. E anche lì alimentò la sua leggenda. Per esempio quella di essere stato radiotelegrafista personale del Duce durante la sua visita sul fronte albanese, a un passo dall’ucciderlo. In Grecia si mise nei guai per connivenza o traffici con la Resistenza. Quando arrivò l’8 settembre si trovava in carcere in Grecia. I tedeschi, dunque, non fecero nessun sforzo per agguantarlo. Da lì fu spedito con una tradotta in Germania, vicino ad Hannover in un campo militare per sei mesi.

Quindi finse di aderire alla Repubblica di Salò, scappò nel viaggio e si unì alla Resistenza. Nel primo dopoguerra fu funzionario del Pci ma vendette la bicicletta di un compagno e venne espulso. Con i suoi racconti nel dopoguerra conquistò la stima e l’attenzione del club letterario della Versilia. Manlio Cancogni lo spinse a imbastire belle storie per i grandi settimanali nazionali. La notte versiliese era dominata dalla sua figura, presentatore e cantante al Kursaal di Viareggio, animatore delle bische e dei circoli, frequentatore della neonata Capannina dove si poteva ascoltare la musica degli americani di Tombolo, il jazz, suonata tra gli altri da un giovane Piero Angela. Ed è proprio Fusco a inventare, in quel locale, la prima edizione del Festival della canzone italiana. La sera del 25 agosto 1948 Fusco premiò Narciso Parigi per la canzone Serenata al primo amore scritta da Pino Mosconi. Poi nel ’51 il Festival fu ripreso a Sanremo e da allora si stabilì nella riviera ligure. Prese un treno che dalla Versilia, voltando a Sarzana, si inerpicava sulla Cisa e raggiungeva la vetta del successo. Conquistò Milano in maniera cruda e disinvolta, con il suo genio di scrittore e la sua maldestra eccentricità.

Di giorno in redazione tra i colleghi, di notte nei locali tra i diversi, gli irrequieti, la mala. Le redazioni erano quelle dei maggiori settimanali, i night erano il Don Lisarder o l’Anthony, i ritrovi erano il Giannelli o Al Panara. L’insuccesso del suo personale filone di ironia sulla guerra – agli inizi degli anni Sessanta mandò in scena "Un cannone per Mariù" al Piccolo Teatro per la regia di Puecher e alle stampe La Guerra d’Albania - lo convinse ad abbandonare Milano e a cambiare aria per andare a Roma. Il Fusco romano aveva un palcoscenico nuovo da sfruttare: il teatro della politica, il mondo del cinema, l’ambiente della radio e della televisione. E soprattutto ritrovi, osterie, ristoranti, insomma una città notturna dove poteva muoversi liberamente e ostentare l’arte affabulatoria. Il Fusco romano esaltò la sua versatilità. Sul finire della recita vitale boicottava saponi e shampoo e frequentava ambienti a lui distanti scompaginando ancora di più le sembianze, le troppe anime e scoraggiando coloro i quali contavano su una certa identità, presagendo di ingarbugliare quanti un giorno si sarebbero messi sulle sue tracce.

MARCO FERRARI