Mi sto ammalando, credo che tra breve non ce la faró piú. Non si tratta del coronavirus, ma é proprio per questo maledetto flagello che il mio cervello comincia a dar segni di stanchezza. Comincio ad avere i primi sintomi di quello che gli esperti chiamano "la sindrome di stanchezza psicologica", bella espressione per riferirsi all’esaurimento dei miei neuroni.
Come é nato il fatto? Ricordo ancora quella sera del 13 marzo in cui si annunciarono a Montevideo i primi quattro contagi del COVID 19 e si decise chiudere le porte dell’universitá. Da una settimana avevo iniziato il mio corso semestrale e non sapevo come continuare. Mi venne incontro una assistente molto brava, che mi parló per la prima volta della piattaforma "zoom", una tecnologia che mi avrebbe consentito continuare le mie lezioni attraverso lo schermo del computer. Cosí si é iniziato il mio rapporto di odio e amore con "zoom".
Questa meraviglia della tecnologia digitale mi ha permesso continuare a lavorare tranquillamente in diversi spazi: la comunicazione con gli studenti, il contatto con i clienti, conferenze date ed ascoltate attraverso l’interconnessione digitale. All’inizio tutto andava bene, ma adesso la questione si é complicata, perché da piú parti giungono richieste di connessione, a volte vincolate al lavoro, il piú delle volte alla docenza e alla ricerca universitaria. Per farla breve, oggi trascorro una media di 5 ore con connessioni via zoom, il che crea diversi problemi.
Il primo é avere una postazione adeguata da dove connettersi: ma non basta un tavolo e la luce giusta; bisogna ricordare a chi vive in casa, di non disturbare, non fare rumore, evitare altre connessioni al wifi, che potrebbe indebolire la rete e via dicendo. Il secondo problema é che lavorare via piattaforma con tanti interlocutori di fronte esige una concentrazione maggiore che nel caso di una rapporto diretto. La conseguenza é proprio quella stanchezza ed esaurimento di cui parlavo prima.
Mentre ragiono su queste cose, mi capita in mano un esemplare della rivista della National Geographic (nientre di meno), che mi spiega molte cose. L’articolo parla della "zoom fatigue" o sindrome da stanchezza psicológica da videochiamate. La "zoom fatigue" spiega é il particolare affaticamento prodotto dalla maggiore attenzione che ciascuno di noi deve impiegare durante le video-call per rintracciare i segnali non verbali. Infatti nella comunicazione faccia a faccia non solo ascoltiamo le parole, ma percepiamo anche il linguaggio non verbale, che ci aiuta a comprendere e a memorizzare più facilmente. Nelle video-call, complice la scarsa qualità del video e la distanza, è più difficile la lettura di questi segnali.
Di questo particolare problema si sono occupati Gianpiero Petriglieri, professore associato di Insead e Marissa Shuffler, professore associato della Clemson University, in una intervista concessa alla BBC. I due esperti consigliano di limitare le videochiamate a quelle strettamente necessarie e di non accendere, per forza, le videocamere, ma limitarsi all'ascolto, come se fossero telefonate semplici. Un altro buon consiglio è quello di fare una pausa tra una videochiamata e l'altra, facendo un po' di esercizio oppure bevendo un caffè rilassati in poltrona. Insomma, staccarsi un po’ dallo schermo.
La questione diventa ancora piú complessa quando lo schermo riproduce la immagini di varie persone contemporaneamente. La visione dei quadratini con l’immagine di diverse persone, disposte come in una galleria di quadri - che gli esperti chiamano "gallery view" -, suppone una ulteriore difficoltá per il cervello, obbligato a decodificar tanta gente allo stesso tempo. Le conseguenze di tutto ció sono quelle comuni di ogni esaurimento nervoso: insonnia, attachi di panico, stati d’ansia, depressione e via dicendo.
Quindi il monito vale per tutti: meno zoom e piú rapporti personali (anche telefonate, ma personali), un caffé o un té di tisana ogni tanto per interrompere il lavoro, e non perdere l’abitudine - anche in tempi di coronavirus - di fare una bella passeggiata, sempre sotto il segno della responsabilitá.
JUAN RASO