Non andrà davvero tutto bene. O, meglio, non potrà andare tutto bene per tutti. Passata – almeno lo speriamo – l’emergenza più acuta sul fronte sanitario, ci apprestiamo a vivere mesi drammatici sotto il profilo sociale ed economico. Per uscirne con meno danni possibile usufruendo delle risorse disponibili non si potranno erogare sussidi a pioggia, ma dovranno essere fatte necessariamente delle scelte, sostenendo le realtà più virtuose, quelle che nei prossimi anni avranno davvero chance di dire la propria sul mercato, e privilegiando i comparti più strategici per l’Italia, quelli in grado di rimettere in moto un Pil che oggi è in caduta verticale. In ogni caso non potranno salvarsi tutti. Dire con onestà e con chiarezza questi concetti, e ancor più metterli in pratica, non è facile per chi ha il compito di governare e di amministrare il Paese. Complice un meccanismo che facilita un frequente ricambio della leadership politica, si tende sempre a cercare il consenso nel breve periodo, imputando le cicliche criticità all’imperizia dei predecessori o a imprevedibili fattori endogeni.

L’attuale esecutivo, alle prese con un’emergenza realmente imprevedibile, cerca di farlo rassicurando i cittadini nel loro complesso, promettendo che nessuno rimarrà indietro, sbandierando i miliardi in arrivo da un’Europa improvvisamente generosa, camuffando problemi profondi e presenti da molto tempo in disagi momentanei legati alle conseguenze della pandemia. Tutto questo rappresenterà un boomerang non appena i nodi verranno al pettine: non è vero infatti che i soldi europei arriveranno facilmente. Succederà solo a fronte di progetti ben precisi, che dovranno essere chiari e coraggiosi, di cui l’Europa chiederà comunque di rendere conto. In questo scenario il settore dell’industria alimentare non fa certo eccezione. L’impressione generale, favorita anche da alcune parole avventate da parte di autorevoli rappresentanti delle istituzioni, è che il comparto abbia tratto solo benefici dal Covid-19, come se fosse un’isola felice in mezzo a tanta disperazione.

Non è così: l’incremento delle entrate sulla grande distribuzione vissuto nei mesi di lockdown non ha compensato, infatti, le perdite complessive del settore, che ha visto erodersi quasi un terzo del suo fatturato. Per inquadrare meglio il tema basti pensare all’Horeca, cioè al mondo degli hotel, dei ristoranti e dei bar, che rappresenta il 30% del settore dell’industria alimentare e che per mesi ha visto azzerate le proprie entrate. L’Horeca presidia il canale del turismo enogastronomico, che fino al 2019 valeva qualcosa come 12 miliardi l’anno e che nel 2020, in mancanza di visitatori stranieri, avrà una contrazione colossale. È quindi un esempio paradigmatico di un settore strategico da sostenere prima e in misura più forte di tanti altri: il governo in questo caso deve attivare un fondo perduto che tenga in piedi l’Horeca nei prossimi 5-6 mesi, che si annunciano terribili. Se questo canale sarà salvato, lo stanziamento si trasformerà in un investimento, perché il food italiano è un’eccellenza straordinaria riconosciuta in tutto il mondo e a partire dal 2021 il settore potrà rapidamente riprendersi tornando ai livelli di fatturato precedenti al virus e riprendendosi il ruolo di motore della nostra economia.

Saranno scelte dolorose, è evidente. Per operarle senza alcuna discriminazione serve una visione di medio-lungo periodo ed è necessario che venga dato un ruolo centrale alle aziende e alla classe imprenditoriale del Paese. Siamo usciti dalle macerie della seconda guerra mondiale perché l’élite imprenditoriale si è rimboccata le maniche e quel ruolo le è stato riconosciuto. In un momento altrettanto drammatico dobbiamo imparare da quanto di buono è stato fatto in passato.

IVANO VACONDIO

PRESIDENTE DI FEDERALIMENTARE