Sapevamo il dove: a Srebrenica, enclave dei musulmani di Bosnia in teoria protetta dai caschi blu grazie a una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Sapevamo il quando: l′11 luglio di 25 anni fa e giorni successivi. Sapevamo il chi: l’esercito dei serbi di Bosnia del generale Ratko Mladic e del leader politico Radovan Karadzic uccise, a seconda delle stime, dalle 8 alle 12mila persone. Il più vasto massacro in Europa dalla Seconda guerra mondiale e classificato dal tribunale dell’Aja come genocidio. Sapevamo il perché: da quell’angolo di Bosnia orientale dovevano scomparire tutti i non-serbi. Pulizia etnica. Sapevamo poco del come. Finché in Italia, a inizio 2020, è stato pubblicato un libro ("Metodo Srebrenica", Bottega Errante Edizioni, traduzione splendida di Silvio Ferrari). Il suo autore, Ivica Dikic, 43 anni, croato erzegovese, famoso per essere lo sceneggiatore della serie "Novine" in onda su Netflix, ha abbandonato per alcuni anni la fiction e si è immerso in un lavoro matto e disperatissimo di ricostruzione, da storico del passato recente, fino a regalarci una sorta di "tutto il massacro minuto per minuto".
Dopo essersi letto centinaia di migliaia di pagine del processo dell’Aja e di quelli minori tenuti nelle Corti dei Paesi emersi dall’implosione della ex Jugoslavia, aver rintracciato una miriade di testimoni e incrociato le loro versioni. Dalle retrovie della cronaca, concentrata sui leader militare e politico Mladic e Karadzic, è così emersa in piena luce la figura del colonnello Ljubisa Beara, cugino di Vladimir Beara, un portiere-mito degli anni Cinquanta e considerato tra i massimi della storia del calcio. Fu lui, il 13 luglio del 1995 alla vigilia del suo cinquantaseiesimo compleanno, a ricevere dal suo superiore massimo l’ordine secco e perentorio: devi ammazzare tutti i prigionieri e far sparire i loro corpi nel più breve tempo possibile. Nel tentativo folle e orrendo di eliminare le tracce della gigantesca carneficina, casomai, come è successo, ci fosse stato un giudice prima o poi. Il genocidio non pianificato e deciso solo a posteriori poteva avere inizio.
Immemore di Norimberga, che un precedente l’aveva tracciato circa la vacuità dell’alibi dell’obbedienza dovuta, Beara si mise alacremente all’opera con certosino zelo ragionieristico. Doveva risolvere diverse incognite prodotte dall’improvvisazione. Stabilire quanti autobus erano necessari per trasportare i condannati a morte in luoghi periferici lontano da occhi indiscreti, quanto carburante doveva procurare per farli marciare. Dove individuare le fosse comuni in cui sarebbero stati sepolti e mai più rinvenuti (sperava). Quanti metri cubi di terra scavare perché contenessero l’enorme numero di cadaveri, quante pale meccaniche adatte allo scopo reperire. E, naturalmente, quanti assassini assoldare per rendere efficiente la catena di montaggio del massacro a cottimo. Prevedendo possibili renitenti da reintegrare e persino fucili e mitragliatrici da sostituire nel caso le armi si fossero inceppate.
Tra mille difficoltà, tra notti insonni e bottiglie di grappa bevute come antidoto a qualunque resipiscenza, il colonnello Ljubisa Beara, con la complicità di almeno mille persone direttamente coinvolte o comunque a conoscenza, completò la mattanza nel giro di tre giorni. Benché un’omertà mafiosa e rafforzata dal terrore assoluto avesse legato tutti i partecipanti in una congiura del silenzio, i satelliti furono decisivi nello scovare le aree di terra smossa dove i malcapitati erano stati inghiottiti. Le evidenze, molto lentamente, scucirono qualche bocca (poche bocche) e la verità riemerse a poco a poco. Ljubisa Beara sette anni dopo verrà incriminato per genocidio dal tribunale dell’Aja. Nel 2004 si costituirà. Nel 2015 verrà condannato definitivamente all’ergastolo. Nel 2017 morirà nel carcere di Berlino dove stava scontando la pena. In questi ultimi 25 anni gli anatomo-patologi hanno potuto dare un nome a 6.600 resti umani.
Nel Memoriale di Potocari, sorto vicino alla base dei caschi blu olandesi dell’Onu che dovevano proteggere la popolazione civile e che invece si ritrassero lasciando che i lupi sbranassero gli agnelli, questo 11 luglio come a ogni anniversario troveranno una tomba nove corpi identificati negli ultimi dodici mesi. A distanza di un quarto di secolo ancora migliaia di famiglie sono ancora in attesa di un sepolcro dove piangere i congiunti. E Srebrenica è ancora, lo sarà per sempre, una ferita aperta nel cuore pavido di un’Europa che assistette inerme alla demolizione dei suoi principi.
Gigi Riva