Dopo aver esaminato il primo cavallo di battaglia degli artefici della riforma, ossia la tesi che con il taglio dei parlamentari migliorerebbe l’efficienza del sistema, passiamo al secondo. Il Parlamento italiano, dicono, ha un numero ingiustificato di componenti, superiore a qualsiasi altro Parlamento. Se vinceranno i "si", ripete ossessivamente un ministro in carica, l’Italia «tornerà finalmente ad essere un paese "normale", al pari delle altre democrazie europee».
Queste affermazioni non hanno costrutto. Anzitutto, l’incessante tentativo di omologare il nostro paese a modelli stranieri è pratica politicamente disdicevole perché, da un lato, sottende giudizi negativi sull’Italia, di disvalore sulla sua organizzazione istituzionale rispetto a quella di altri paesi, che solo per questo sono giudicati migliori; dall’altro, nasconde grande insicurezza nelle scelte di governo successive a quei giudizi. È quel che sta accadendo, proprio, con la riforma in corso: i sostenitori del "si", per giustificare le loro scelte, si richiamano costantemente alle esperienze di altri paesi, credendo in questo modo di puntellarle in maniera granitica.
Al loro "mantra" non si può che opporre un chiarimento radicale, una volta per tutte. Il numero fisso dei parlamentari, quale che esso sia, non ha nessun significato, sia come dato in sé, sia nella valutazione del grado di rappresentatività dell’organo. Ogni stato, infatti, ha la sua storia e ogni sistema ha determinato composizione e funzioni dei parlamenti seguendo motivazioni, eventi, sentimenti popolari, accordi politici diversi da quelli di altri paesi. Sicché, già da questo punto di vista, il confronto sui numeri è insensato. In parole semplicissime: perché mai sarebbero migliori le scelte fatte dai costituenti tedeschi o da quelli francesi, rispetto a quelli italiani? Se l’erba del vicino sembra sempre più verde, in questo caso è solo perché diversa è stata la storia degli altri stati e diverse sono le loro tradizioni costituzionali. Ma questo non legittima un giudizio di valore, di "normalità" o "anormalità", di efficienza o inefficienza di uno rispetto all’altro.
Si potrebbe seriamente sostenere che la Gran Bretagna è "anormale" perché la Camera Alta ha 772 membri e la Camera Bassa 650, per un totale di 1422? E si potrebbe dire, al contrario, che Malta o Cipro, Austria, Belgio o Svezia sono paesi "normali" perché hanno meno deputati dell’Italia? Se per la Gran Bretagna è la storia a parlare, per gli altri paesi è il numero degli abitanti che giustifica una rappresentanza contenuta in numero assoluto, sebbene in proporzione agli abitanti stessi essa sia molto capillare. Ad esempio, Malta, pur con un Parlamento di solo 68 membri, ha un rapporto di un deputato ogni 7 mila abitanti; Cipro, con 56 membri, ne ha uno ogni 15 mila. Dove si fermerebbe il livello di "normalità" e dove inizierebbe quello della "anormalità", allora? Se proprio si vuole giocare con le cartine geografiche, il solo numero con qualche significato è quello del rapporto tra numero di abitanti di paesi affini e membri delle Camere con funzioni analoghe. E quindi tra Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Italia e parlamentari delle Camere basse, come si può considerare anche la nostra Camera dei deputati.
L’Italia ha attualmente un deputato ogni 96 mila abitanti. Con la riforma ne avrebbe uno ogni 152 mila, mentre la Francia rimarrebbe con uno ogni 116 mila, la Germania uno ogni 117 mila, la Gran Bretagna uno ogni 102 mila e infine la Spagna con uno ogni 130 mila. Volendo continuare nel gioco molto semplicistico del confronto: siamo proprio sicuri che l’Italia sia "anormale" oggi, come narrano ossessivamente i sostenitori del "si", e non lo sarebbe domani, se passasse la riforma? Poiché la risposta è scontata e intendo difendere la storia del mio paese, senza adulare quella degli altri, voterò convintamente "no".
ALESSANDRO GIOVANNINI