È sempre più il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari ad agitare le segreterie dei partiti. E la cosa non ci entusiasma. Certo è un fatto positivo che le forze politiche affrontino con impegno temi che hanno rilevanza costituzionale. Ma abbiamo l’impressione che molte prese di posizione prescindano da un’autentica analisi del merito del quesito referendario sul quale saremo chiamati a votare, ma obbediscano esclusivamente a interessi di parte. Non vogliamo qui entrare nel merito della disputa nella quale si stanno impegnando politici e costituzionalisti e per la quale all'interno degli stessi partiti si accendono polemiche e si operano distinguo. Due cose, tuttavia, ci sembra meritino di essere prioritariamente considerate. La prima è che la vittoria del "sì" renderebbe a nostro giudizio definitivamente da accantonare l'ipotesi di elezioni politiche anticipate (e sorprende, quindi, che tra i sostenitori del sì siano in prima fila Lega e Fratelli d'Italia, vale a dire le due forze politiche che non da oggi premono per andare quanto prima alle urne). La riduzione del numero dei parlamentari, infatti, renderebbe indispensabile varare una legge che ridisegni i collegi elettorali. È pur vero che il segretario del Pd Zingaretti è impegnato a sollecitare dai cinquestelle il varo preventivo di una riforma elettorale. Ma, francamente, la sua è solo una richiesta strumentale poiché è ben difficile pensare che una riforma elettorale, importante come quella elettorale, possa essere approvata nel breve periodo che ci separa dal giorno del voto. Senza contare che il mandato di Sergio Mattarella scadrà il 31 gennaio 2022 e che, in virtù del "semestre bianco", il presidente della Repubblica non potrà sciogliere le Camere nei sei mesi che precedono tale data. In questo senso se, come indicano i sondaggi, il sì dovesse uscire vincitore dal referendum, Lega e Fratelli d'Italia avrebbero realizzato un autogol. In secondo luogo ci sembra che mai come a questa vicenda si debba applicare la vecchia locuzione del linguista francese De Saussure, secondo cui "tout se tient". Tutto si tiene. Vale a dire che, soprattutto quando si tratta di porre mano a riforme che hanno un rilievo costituzionale, ogni riforma si intreccia con le altre. Per farla breve, non è possibile che "la grande riforma" che serve più che mai all’Italia, si faccia a pezzetti. Una modifica del numero dei parlamentari, che è fissato nella carta costituzionale, richiede, pertanto, un collegamento con il contesto del quale fa parte. Limitarsi a ridurre il numero dei parlamentari senza collocare una tale modifica all’interno di una visione complessiva dell'impianto costituzionale rischia di obbedire esclusivamente a una irrazionale spinta demagogica: un provvedimento buttato là con l'unico intento di soddisfare un populismo che vede acriticamente nella classe politica una "casta" da colpire.

Si ripropone, insomma, un annoso quesito: se debba essere la volontà popolare ad ispirare le scelte della politica o se debba essere quest'ultima a orientare le scelte dell'opinione pubblica. Appare chiaro che tra queste due opzioni, la nostra classe politica ha scelto la prima. Ed è purtroppo evidente che a determinare questa scelta è l'incapacità del mondo politico di elaborare programmi e proposte costringendolo a seguire la volontà, spesso irrazionale, della popolazione. Non sappiamo se, come da più parti è stato sostenuto, la nostra Costituzione sia realmente la più bella del mondo. Quel che sappiamo per certo è che le forze politiche seguirono, per vararla, un metodo esemplare, consapevoli di dover rinunciare agli interessi di parte per approvare la legge fondamentale dello Stato. È a quel metodo che gli attuali partiti dovrebbero ispirarsi. Ma non sembra, purtroppo, che ne siano capaci.

OTTORINO GURGO