I dati relativi ai redditi 2018 degli italiani, dichiarati lo scorso anno ed elaborati da Itinerari Previdenziali per la sua settima indagine conoscitiva sulle entrate fiscali e sul finanziamento del welfare, ci restituiscono l’ennesima fotografia di un Paese in cui narrazione e percezione contano più dei fatti e dei numeri. Una prima considerazione: su 60.359.546 cittadini residenti in Italia a fine 2018, i contribuenti dichiaranti sono stati 41.372.851; per contro, i paganti, cioè quelli che versano almeno 1 euro di Irpef, sono stati 31.155.444; 482.578 in più rispetto al 2017 ma ancora ben 434.622 in meno rispetto al massimo registrato nel 2011.
In altre parole, quasi la metà degli italiani, 29,204 milioni pari al 48,38%, non ha redditi e vive quindi a carico di qualcuno.
Verrebbe da dire una percentuale atipica, degna di un Paese povero e non certo membro del G7, se non fosse che le stime su consumi, spese e possesso di determinati beni (telefonia, alcol, tabacco, gioco d’azzardo, etc.) vadano invece a smentire questa tesi e a puntare piuttosto il dito su un’elusione fiscale mai efficacemente contrastata in Italia, anzi, anche molto incentivata da una miriade di bonus e sconti assegnati a chi dichiara redditi bassi. Ed ecco allora una seconda considerazione: rispetto agli ultimi cinque anni di analisi, sono comunque aumentati i contribuenti che presentano la dichiarazione, i versanti, i redditi dichiarati e l’ammontare totale di Irpef versata (al netto del bonus Renzi di circa 10,5 miliardi), nonostante siano rimaste quasi del tutto inalterate le aliquote ordinarie e le addizionali regionali e comunali. Eppure, resta invece drammaticamente invariata, salvo piccoli scostamenti, la percentuale di contribuenti su cui grava quasi per intero il peso del fisco, altro dato cruciale su cui riflettere quando si affronta lo spinoso tema della riforma: infatti, il 13% dei contribuenti con redditi da 35 mila euro in su versa circa il 58,9% di tutta l’Irpef. Non certo, il ritratto di un intero popolo oppresso dalle tasse di cui a volte si narra. Nel dettaglio, i contribuenti delle prime due fasce di reddito (fino a 7.500 e da 7.500 euro a 15mila) sono 18.156.997, pari al 43,89% del totale, e versano il 2,42% di tutta l’Irpef. A loro corrispondono 26,490 milioni di abitanti i quali, considerando anche le detrazioni, pagano in media circa 156,7 euro l’anno e, di conseguenza, si suppone anche pochissimi contributi sociali: con molte probabilità saranno dei futuri pensionati assistiti dalla collettività. Tra i 15.000 e i 20.000 euro di reddito lordo dichiarato, abbiamo invece 5,724 milioni di contribuenti, i quali pagano un’imposta media annua di 1.966 euro, che si riduce a 1.348 euro per singolo abitante: in questo caso, un importo sicuramente più alto ma comunque ancora insufficiente a coprire per intero anche il solo costo pro capite della spesa sanitaria (circa 1.886 euro). Basterebbe in effetti un semplice confronto tra imposte versate e servizi ricevuti dallo Stato per far comprendere come molti italiani siano già a carico dei propri concittadini, senza che si arrivino a ipotizzare ulteriori redistribuzioni o riduzioni del carico fiscale a favore dei redditi più bassi. Questi primi tre scaglioni di reddito, ad esempio, versano in totale circa 15,4 miliardi ma ne ricevono «in cambio» per la sola sanità 50,3. Si potrebbe certo obiettare che pagano comunque anche imposte indirette, Iva e accise, ma è poi vero che oltre alla sanità andrebbero considerate molte altre spese statali, come quella per le infrastrutture, l’istruzione o per l’assistenza, in ovvia crescita dopo Covid-19.
ALBERTO BRAMBILLA