di Maria Carmera Spataro*
Con la vittoria nella battaglia di Cerignola (28 aprile 1503) il Regno di Napoli entrava nell’orbita imperiale spagnola e, per i successivi due secoli, la sua vita politica veniva gestita da Vicerè nominati da Madrid. La storiografia risorgimentale vi legge una deminutio del Regno, ridimensionato in Europa, in decadenza e asservito alla monarchia spagnola, la cui azione politica viene ridotta agli aspetti fiscali. Il Regno di Napoli sarebbe diventato una colonia da sfruttare. Con questa chiave di lettura, c’è chi continua ad interpretare la rivolta di Masaniello come rivolta di un “popolo angariato”, ribellione allo “straniero”, “anelito di indipendenza”: schema troppo semplicistico e marcatamente ideologico, smentito dalle fonti e dall’analisi delle istituzioni politiche e giuridiche del tempo. Invece, persino nel periodo considerato di massimo rigore, i 27 anni (1532-1553) del vicerè don Pedro de Toledo, né l’autonomia del ministero togato napoletano, ai vertici delle istituzioni, né i costumi e le prerogative del Regno furono mai scalfiti, come non furono mai imposte lingua e leggi castigliane. Contro i tentativi di introdurre nell’ordinamento strumenti di controllo (Inquisizione, Tribunale della Revisione, Catasto immobiliare) si oppose il diritto patrio. Le istituzioni del Regno e della capitale continuarono in piena autonomia, governandosi con organi e parlamenti propri, raccordati al potere centrale tramite la figura dei vicerè, senza alcuna “ispanizzazione”, a differenza di quanto accadde con la “piemontesizzazione” nel 1860. «Il paese non fu affatto spagnolizzato - scrive Nino Cortese - perché rimase quel che era, napoletano cioè, ma con un maggiore senso di disciplina», mentre per Giuseppe Galasso «l’Italia dei secoli XVI e XVII fu lontana (…) dal vivere il rapporto con la Spagna nell’ottica di un’oppressione straniera». Nella grande “confederazione delle Spagne”, la capacità di superare le divisioni interne, e proiettarsi nelle contese internazionali, si consolidò al punto che i napoletani assunsero come proprie le imprese dei re spagnoli. Se con Ferdinando il Cattolico, sovrano aragonese, il Regno già partecipa alle imprese della monarchia ispanica, con Carlo V assunse un ruolo di primogenitura nel panorama italiano. Napoli si mostrava come una capitale delle Spagne, esaltata in questo ruolo dalla presenza di tanti sovrani venuti dai diversi Stati italiani per rendere omaggio all’imperatore. Nel suo trattato “De subfeudis” (1579) Marino Freccia coglie l’essenza dei rapporti tra Napoli e le Spagne nel fatto che le istituzioni napoletane si muovono lungo una propria traiettoria: “Neapolis civitas caput totius Regni Siciliae, ac mater omnium civitatum Regni”. È la chiave per comprendere i rapporti della monarchia con la capitale. La preminenza di Napoli, che assume la rappresentanza dell’intero Regno, determina la precedenza dei sindaci della città su tutti i magistrati e baroni, ed è la base della visione politica del Regno alla metà del ’500, ossia il suo inserimento nella monarchia federativa, di cui gli scrittori del tempo erano ampiamente consapevoli. È per questo che, anche nei momenti di maggiore tensione sociale, come nel 1647-48, il legame tra Napoli e le Spagne è tale che si ricorre al “re di Spagna [come] Re ed Imperatore nostro”, per superare le contrapposizioni. Lo conferma la cosiddetta rivolta di Masaniello, che ha origine nell’esigenza di ristabilire il tradizionale assetto istituzionale del Regno, garantito dalla Corona di Spagna - contro i tentativi di destabilizzarlo.
*Università Federico II