In soccorso degli alberi sono arrivati i numeri. La crisi climatica ha puntato un faro di attenzione sulla laboriosità immobile degli alberi. Adesso sappiamo che i boschi che resistono attorno alle strade e i filari pensati come confini di un parcheggio non sono decoro. Gli alberi si danno un gran daffare. Assorbono la CO2 con la loro crescita, fanno da scudo termico alle città, filtrano le polveri sottili, trattengono le piogge che stanno assumendo un carattere tropicale. Da un punto di vista puramente economico gli alberi dunque vanno rivalutati. E questo è il giro di boa, dopo decenni di disconoscimento, da registrare. Ma, alla viglia della Giornata degli alberi che si celebra oggi, 21 novembre, c'è da chiedersi se la patente che li abilita a un'esistenza utile sia sufficiente o se gli alberi abbiano qualche altra cosa da dirci. O da insegnarci. Lo abbiano domandato a Tiziano Fratus, un "cercatore di alberi" che ha dedicato loro una vita di cammini, ricerche e libri (l'ultimo è Sogni di un disegnatore di fiori di ciliegio, edizioni Aboca).
"Gli alberi hanno delle capacità di cui solo ora cominciamo a prendere coscienza in modo scientifico", risponde Fratus. "Ad esempio quella di costruire una rete e di agire come un assieme. Questa caratteristica è stata analizzata da molti studi sulle foreste boreali, nella parte settentrionale del nostro emisfero. Ad esempio è stato dimostrato che, quando le popolazioni di scoiattoli raggiungono dimensioni che intaccano l'equilibrio della foresta, gli alberi riducono la produzione di pigne e dunque la disponibilità di cibo per la specie sovrabbondante. E si è anche visto che, se il clima diventa troppo secco, le piante producono elementi chimici che, espulsi nell'aria, aggregano umidità creando nubi".
Insomma quello che perdono in possibilità di movimento le piante lo acquistano in capacità d'integrazione e di scambio con il luogo in cui si trovano. Fino a modificarlo secondo i loro desideri. Una capacità invidiabile in un periodo in cui noi stiamo facendo l'opposto: modifichiamo il pianeta in una direzione che lo rende meno adatto alla nostra vita.
"Forse è per questo che l'immergersi in natura come pratica spirituale si sta cominciando a diffondere", continua Fratus. "Si riscoprono le varie facce dell'approccio contadino che vedeva l'albero anzitutto come una banca, perché forniva i beni necessari a scaldarsi, costruire, scambiare oggetti. Ma anche come un amico che merita riconoscenza: dagli alberi dipendeva la vita di intere comunità. Non solo perché sfamavano ma perché in certi casi proteggevano anche fisicamente il paese. Lo facevano ad esempio i boschi fatti crescere a monte di villaggi esposti a frane, in modo da avere a disposizione uno scudo naturale".
Di quella conoscenza antica dei boschi non resta quasi più nulla, si è persa assieme agli abitanti delle montagne e delle zone interne. Ma ne sta spuntando una di ritorno. Ed è paradossalmente di origine metropolitana. Cittadini che cercano una compensazione allo stress fisico e psicologico delle città tornando a frequentare (in alcuni casi perfino ad abitare) i boschi. Boschi che però, nel frattempo, hanno guadagnato estensione spesso perdendo qualità, cioè biodiversità.
"Molte ricerche convergono su un dato: negli ultimi 50 anni a livello globale nei boschi e nelle foreste le popolazioni di animali selvatici sono diminuite del 70%", ricorda Fratus. "La spiegazione è semplice: la popolazione umana è raddoppiata e l'impatto della chimica di sintesi è cresciuto enormemente. Lo vedo anche nel posto in cui sono cresciuto, il Monferrato. Alla fine del secolo scorso, quando ero ragazzino, nei fiumi c'erano i gamberi grigi, nelle rogge e nei canali i tritoni, le salamandre. Sono scomparsi".
Antonio Cianciullo