Con tutti gli errori che Matteo Renzi ha potuto commettere, le critiche che gli sono piovute addosso, i limiti e le ombre che ha mostrato, non aveva torto l’ex premier ed ex segretario “dem”. Non aveva torto a proporre la riforma del Titolo V della Costituzione nel referendum popolare del dicembre 2016. Sono passati quattro anni. Siamo di fronte alla disgregazione nazionale. Innescata dall’esplosione dei conflitti fra Stato e Regioni durante l’epidemia da coronavirus. Forse non sbaglierebbero i suoi detrattori a riconoscere che quella è stata una grande occasione persa. E magari lo facesse dal fronte del No anche qualche personaggio politico. Inizialmente favorevole al Sì, che poi s’è fatto convincere a cambiare idea per calcolo o convenienza dalle pressioni mediatiche.
Se quella riforma costituzionale – già approvata dal Parlamento – fosse stata confermata dalla maggioranza degli elettori, avrebbe evitato l’indecoroso spettacolo a cui stiamo assistendo dall’inizio dell’emergenza sanitaria. Le Regioni che litigano con il Governo prima sul lockdown. Poi sul “colore” da assegnare a ciascuna. E ora anche sulle vacanze di Natale sulla neve.
La grottesca querelle del FVG - Fino alla querelle francamente grottesca innescata dal presidente del Friuli Venezia Giulia. È il leghista Massimiliano Fedriga, secondo il quale i 21 criteri stabiliti dal Comitato tecnico-scientifico per classificarle gialle, arancioni o rosse, sono troppi. E ne basterebbero cinque.
Se questa è la cosiddetta “autonomia differenziata”, dietro la quale si nasconde l’egoismo delle regioni settentrionali che professano la “secessione dei ricchi”. Ai danni di quelle meridionali. Allora non vale neppure la pena parlarne. Tanto più che il Nord – secondo i dati forniti dall’Abi (Associazione bancaria italiana) – s’è accaparrato anche il 52% dei prestiti garantiti dallo Stato per l’emergenza sanitaria ed economica. Mettendo il Sud a rischio di usura. Oltre la metà dei finanziamenti è andata a quattro regioni, cioè Lombardia (23%), Veneto (11,4%), Emilia Romagna (10,2%) e Toscana (8,2%).
Mettere mano al Titolo V sulle Regioni - È chiaro a tutti ormai che, appena superata l’epidemia, bisognerà rimettere mano all’infausta riforma del Titolo V. Introdotta dal centrosinistra nel 2001 con un pugno di voti. Per inseguire il federalismo della Lega sul terreno elettorale, dilatando così la spesa pubblica per effetto del decentramento. “Un Paese scombinato”, come lo definisce l’ex premier Romano Prodi. Rilevando che finora a rimetterci di più sono state in particolare le regioni meridionali. Ne deriva una debolezza strutturale che destabilizza il sistema e lo rende di fatto ingovernabile.
Sulle soluzioni da adottare, le opinioni dei costituzionalisti convergono sostanzialmente su un punto. Nelle materie fondamentali, com’è – appunto – la sanità, l’interesse nazionale deve prevalere su quelli locali. Non si può circolare impunemente da una regione all’altra per aggirare le restrizioni imposte dal Governo centrale in base a parametri oggettivi quali il numero dei contagi, dei posti letto o delle terapie intensive. Né è più accettabile che tanti cittadini meridionali siano costretti ad affrontare i “viaggi della speranza” per farsi curare al Nord in strutture ospedaliere più moderne, organizzate ed efficienti.
Lo stesso criterio deve valere per gli altri servizi essenziali, dai trasporti pubblici all’energia, dalla scuola all’università. Finora il Sud ha pagato un prezzo troppo alto in termini di tagli agli investimenti e di infrastrutture inadeguate. Lo Stato deve riprendere il suo ruolo di regolatore e promotore dello sviluppo, senza invadere ovviamente la sfera dell’iniziativa privata garantita dall’articolo 41 della Costituzione.
Autonomia delle Regioni, ma…- Per quanto riguarda le prerogative regionali, l’autonomia è un dogma impresso nella nostra Carta e tale deve restare in forza del principio di sussidiarietà. Ma il lungo elenco delle competenze cosiddette “concorrenti” va opportunamente rivisto e ridimensionato.
In questo stesso termine, “concorrenza”, è implicito il germe di una conflittualità potenziale fra Stato e Regioni che ormai esplode quotidianamente. E ingolfa l’attività della Corte costituzionale. Chiamata a dirimere i “conflitti di attribuzione” fra Governo centrale e Governi locali. Una valanga di 2.089 ricorsi negli ultimi vent’anni. Sulle materie di rilevanza nazionale, dunque, è necessario introdurre quella “clausola di supremazia” a favore dello Stato. Che viene invocata da più parti per salvaguardare la coesione e l’unità del Paese.
Da 20 a 12 Regioni - Di fronte alla decomposizione territoriale a cui stiamo assistendo, tornano in mente anche i progetti per ridurre il numero delle Regioni, proposti in passato da diverse fonti. Il più noto è quello presentato dalla Fondazione Agnelli nel 1992 che, attraverso alcuni accorpamenti, ne prevedeva un massimo di 12. E cioè.
- 1) Piemonte, Val d’Aosta e Liguria, tranne la provincia di La Spezia;
- 2) Lombardia;
- 3) Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia;
- 4) Emilia Romagna con la provincia di La Spezia;
- 5) Toscana con la provincia di Perugia;
- 6) Marche, Abruzzo e Molise;
- 7) Lazio con la provincia di Terni;
- 8) Campania con la provincia di Potenza;
- 9) Puglia con la provincia di Matera;
- 10) Calabria;
- 11) Sicilia e
- 12) Sardegna.
Ma rafforzare l’autonomia regionale - Non si tratta, beninteso, di ridurre il numero delle Regioni per ridurne i poteri. Si tratta, piuttosto, di rafforzare l’autonomia regionale sui rispettivi territori, inquadrandola in una prospettiva più generale. Quella della Fondazione Agnelli era un’ipotesi di lavoro. Ma il progetto si può eventualmente approfondire e discutere. Non è il patriottismo di testata a suggerire, per esempio, che Puglia e Basilicata potrebbero essere unificate. Raggiungendo così una popolazione complessiva di 4,5 milioni di abitanti, rispetto ai 5,77 della Campania e ai 5,0 della Sicilia.
Fatto sta che l’attività amministrativa delle macro-regioni, accorpando territori più ampi e omogenei, risulterebbe più funzionale ed efficiente, in modo da contenere le spese, le inefficienze o gli sprechi.
Rapporti fra cittadini e macro regioni - Oggi, per di più, lo sviluppo delle comunicazioni e dei trasporti ha per così dire accorciato le distanze geografiche. All’interno di una macro-regione, le relazioni dei cittadini con la pubblica amministrazione possono essere agevolate dalle reti materiali e immateriali. Gli stessi amministratori regionali, governatori, assessori e consiglieri, hanno maggiori possibilità di operare e interagire sul territorio. Ventuno “staterelli” in uno stesso Stato, con 60 milioni di abitanti su una superficie 330mila chilometri quadrati, appaiono ormai esorbitanti e dispersivi.
In ogni caso, che le Regioni siano 21 o 12, va messa all’ordine del giorno la questione delle competenze, dei poteri e delle responsabilità. Per evitare la frantumazione del Paese, occorre una nuova organizzazione dello Stato. In questa ottica, anche la vertenza sulla controversa “autonomia differenziata” potrebbe essere superata conciliando i legittimi interessi territoriali con quello superiore dell’intera Nazione.
di Giovanni Valentini