L'elegia mediatica sembra non avere mai fine. Il mondo resta abbarbicato quasi disperatamente al mito di Maradona. Un amore infinito che, paradossalmente, sembra aumentare giorno dopo giorno. Mentre si moltiplicano i minuti di silenzio, i giocatori listati a lutto, gli stadi da titolare a suo nome, i musei da costruire nei cinque continenti. La fiamma del mito arde ancora. Lo conferma lo tsunami di volti, di voci, il periplo delle parole che lo hanno accompagnato in questi giorni.
Al di là delle sue fragilità, al di là di ogni errore del passato, Diego è stato subito collocato nel Pantheon del Novecento. C'è sicuramente, nel mondo del calcio, gente che ha segnato più di lui, che ha guadagnato più di lui, che ha giocato più di lui. Ma il football resta un dolce inganno, non solo sul campo. E la gente ha sempre amato la fantasia e chiunque riuscisse a dispensarla. Diego era questo. Un ribelle, un rivoluzionario, un anarchico del calcio che lottava, che segnava ma, soprattutto, incantava le folle. Con le sue parabole impossibili, con i suoi dribbling irrazionali.
E il mondo lo ha amato per la sua genialità, per quello spirito inquieto che lo spingeva oltre l'avversario, oltre il perimetro del campo di gioco, oltre tutto, in una dimensione oggettivamente planetaria. Portandosi dietro una famiglia ingombrante, un clan assetato di denaro, una dipendenza che ne avrebbe segnato la fine. La sua grandezza, ora, riposa in pace. Mentre si aprono inchieste sul suo medico curante, mentre gli scontri sull'eredità, con cinque figli sparsi tra quattro donne diverse, sembrano già in atto, il domani potrebbe trasformarsi in un rebus.
Ma la sua irrazionalità non poteva fornire risposte diverse. Nel labirinto dei suoi problemi, la logica era sempre un optional. Avevo già avuto, nel passato, le prime conferme della sua dimensione planetaria. Ricordo, nel 1982, inseguendo l'estate eravamo finiti in un'isola caraibica. Erano già i tempi di Bob Marley e del reggae. Con mia moglie decidemmo di visitare la capitale. Ci fu consigliata una corriera polverosa che passava tre volte al giorno, dove la gente ballava tra ritmi sudamericani. L'autista, sopra la sua testa, aveva solo due santini. Un'immagine di Gesù e accanto, in bella vista, quella di Maradona.
E tutti nell'America Centrale lo conoscevano. Era un re senza corona. Eternamente avvolto dall'abbraccio curioso e morboso del mondo. Ci ha regalato giornate indimenticabili, scolpite ancora nella memoria. Ed oggi, accanto al padre e alla madre, ha ritrovato la sua serenità. Ci ha condotto, con il suo calcio, in un territorio magico e stregato. Con l'arte povera e indisciplinata dei geni. Ecco perché abbiamo imparato ad amarlo.
Giuseppe Scalera