Il refrain più gettonato di questi cupi mesi è che il Covid-19 ha sconvolto il mondo e che nulla sarà più come prima. A partire da mascherine e distanziamento, l'alba di una nuova era sarebbe sorta.
Ma siamo davvero certi che sia così? Che la pandemia, scardinando certezze e profili della nostra società, abbia al tempo stesso gettato le basi per la nascita di una nuova?
Siamo certi che l'economia, la cultura, i comportamenti siano destinati a mutare radicalmente e stabilmente?
Dopo la prima ondata dei contagi, durante l'estate, si stava tornando a comportamenti molto vicini a quelli pre-covid: l'urgenza di far ripartire il motore del Paese, in folle da marzo, è parsa inconciliabile con la necessità – peraltro da più parti invocata – di riscrivere i paradigmi di un modello di sviluppo che ha ampiamente dimostrato i propri limiti.
Alcuni tra i campioni mondiali di questa 'conservazione' talmente rocciosa da resistere persino al Covid-19, sono Trump negli Stati Uniti e Bolsonaro in Brasile. Rimasti intransigentemente ancorati a un conservatorismo neoliberista di Destra, praticano una democrazia leaderista, plebiscitaria e sessista che legittima e perpetua un mercato senza vincoli e genera enormi squilibri sociali (territoriali ed economici).
E significativamente, hanno entrambi portato alta nel mondo la fiaccola del negazionismo, scatenando nei rispettivi paesi una enormità di contagi e morti.
Vedremo tra qualche giorno se negli USA questo modello sarà sconfitto dalla consapevolezza che un cambiamento radicale non è più rinviabile.
I segnali che arrivano dal Sud America sembrano incoraggianti. Sembra infatti emergere o consolidarsi una forza progressista, una vocazione al cambiamento che, passando attraverso la richiesta di democrazia partecipativa, di equità economica e sociale, di riscatto da ogni forma di razzismo e omofobia, di presenza dello Stato nell'economia e nel welfare inclusivo, ha portato alle vittorie chiare e nette del MAS in Bolivia e dell'"Apruebo" al referendum in Cile.
Vittorie che arrivano dopo quella di Fernandez in Argentina, il leader sudamericano che più e meglio degli altri ha affrontato la pandemia, con un approccio opposto a quello di Bolsonaro.
Lo stesso Bolsonaro che di fronte al disastro economico e sanitario ha accusato di inefficienza il ministro dell'Economia Paulo Guedes, da lui stesso nominato proprio perché neoliberista strettamente legato ai grandi capitalisti nazionali.
Non si tratta, dunque, di sole vittorie elettorali frutto di contingenze locali, ma di nuovi, profondi mutamenti globali che cercano nuovi approdi politici diversi dal passato.
In Argentina la bocciatura netta del neoliberismo di Macri, significa ricerca di un modello sociale e welfaristico più equo e che miri a ridurre gli squilibri e a tutelare i più fragili.
In Bolivia, dove la prepotente affermazione del MAS apre una fase nuova dopo le forzature di Morales - che cambiò la Costituzione per farsi rieleggere – e quelle delle opposizioni di Destra, tentate per destituirlo, dopo i venti di guerra civile che hanno spazzato il Paese per mesi.
Il MAS ha saputo arginare narcisismo ed errori di Morales, agire in modo compatto e coerente con la propria matrice popolare, caratterizzando l'azione di governo con un segno progressista e un impianto redistributivo delle politiche economiche. Non a caso la vittoria schiacciante ha premiato Arce, già ministro all'economia di Morales e attore principale di quelle politiche.
Una vittoria democratica netta che ha respinto gli obiettivi delle destre di minare, con quella di Morales, la credibilità di tutto il MAS. Una vittoria che conferma la forza e il consenso popolare delle politiche progressiste, svelando debolezze e divisioni dell'opposizione filotrumpiana, liberista e razziale di Mesa e Anez.
In Cile, Paese tra i più diseguali al mondo, dove beni e servizi fondamentali sono privati e dove la mancanza di fiducia nelle istituzioni è ormai sentire comune, tanto da investire anche l'elettorato progressista deluso dalla Sinistra moderata e istituzionale, troppo subalterna al mainstream neoliberista.
In Cile hanno vinto coloro che chiedono una nuova Costituzione e che vogliono farla scrivere solo da nuovi eletti direttamente dal popolo nella nuova Assemblea costituente, senza rappresentanti espressione del Parlamento in carica, eletto nel 2017 con una affluenza al di sotto del 50%. Quella di oggi, invece, è una richiesta di massa di democrazia e cambiamento nel segno dell'equità e della redistribuzione: un cambio radicale, dunque, dei fondamentali economici, culturali e politici del Paese. E qui, in modo ancor più chiaro che altrove, è stato determinante il ruolo delle donne che hanno fatto risuonare le piazze del canto "El violador es tu" (ispirato a "Un violador en tu camino", del Colectivo Las Tesis) e si sono battute a un tempo contro un sistema patriarcale e discriminatorio e per un nuovo modello economico e sociale.
Non è un caso se in testa a tutti i sondaggi nazionali, per gradimento, troviamo Daniel Jadue, il sindaco comunista di Recoleta, personalità divisiva all'interno del centrosinistra cileno, ma popolarissimo. Jadue è l'inventore della "Farmacia popular", un sistema di sussidi statali che permette ai comuni di rifornirsi di medicinali da laboratori nazionali ed esteri tagliando il costo della distribuzione e ottenendo fino al 70% di sconto sui farmaci.
Questi cambiamenti investono parecchi milioni di esseri umani. E per quanto poco menzionati nel dibattito pubblico e politico internazionale (e, soprattutto, italiano), non credo possano essere sottovalutati o liquidati. Sono la spia di una domanda forte e radicale di cambiamento. Di cambiamento in un quadro pienamente democratico, di sostanza, di visione. E la visione che si indica è quella di una ritrovata fiducia nella partecipazione, nelle istituzioni e nello Stato, al quale si chiede una maggiore presenza nell'economia, una più forte redistribuzione nel segno dell'equità, un ampliamento nella sfera dei diritti (soprattutto quelli delle donne), una reale attenzione alla sfera dei bisogni e ai temi di interesse collettivo, come ambiente, istruzione e sanità.
Allora forse sta qui il cambiamento prodotto dal Covid: aver modificato, brutalmente, le priorità dei popoli. Certo, che le élite tengano il passo è tutto da dimostrare.
Il prossimo, importante passaggio elettorale in Sud America sarà quello venezuelano di dicembre, ben più problematico di quello boliviano. In questi anni abbiamo assistito ad uno scontro istituzionale molto aspro in quel Paese, frutto di una crisi economica, sociale e politica che ha visto una contrapposizione insanabile tra Maduro e il suo maldestro e autoritario modello sociale e le opposizioni neoliberiste filo trumpiane legate a una idea di Venezuela egoistica, superata e bocciata dalla storia.
Prima della pandemia, assistevamo a una critica internazionale pressoché unanime a Maduro, all'isolamento politico ed economico del Venezuela, a depressione e inflazione col doloroso corollario dell'espatrio volontario di milioni di venezuelani, soprattutto nei paesi della Regione.
Dopo il Covid e la crisi sanitaria in tutto il Continente, i troppi morti del Brasile, le inefficienze della sanità privata, Maduro rischia di tornare a vincere le elezioni, grazie alla gestione della sanità pubblica in Venezuela (con tutti i suoi limiti) che sta garantendo assistenza in patria a molti dei fuoriusciti pre-Covid che non vengono curati né trovano lavoro altrove.
Se avverrà, c'è da scommetterci, non sarà perché le litigiose e divise opposizioni non partecipano alle elezioni, denunciando l'autoritarismo del "dittatore" Maduro, quanto piuttosto perché non basterà opporre al modello autoritario di Maduro e al suo scadente ma universale welfare, un programma ultraliberista alla Trump e Bolsonaro, favoleggiando di un ritorno a un Eldorado pre-Chavez che i venezuelani non hanno mai vissuto.
Il rischio di questa strategia nostalgicamente conservatrice è di assegnare a Maduro una paradossale e anomala collocazione nel campo progressista e socialista, che sta raccogliendo la sfida del Covid, della lotta alle disuguaglianze, di un modello di sviluppo sostenibile senza tradire la democrazia.
Eugenio Marino