​ ​di James Hansen

Forse per l’ansia che ispira in Occidente, è difficile tenere a mente che, geograficamente parlando, la Russia è più asiatica che europea. Al Cremlino non possono permettersi il lusso di pensare prima all’Europa, non quando il Paese divide con la Cina un confine comune indifendibile lungo 3.400 km—con tantissimi cinesi poveri di risorse naturali da una parte e pochissimi russi con molte risorse poco sfruttate dall’altra. Intanto, il coltello è passato di mano da quando Mao Tse- tung fece un viaggio da supplicante a Mosca fra il 1949 e il 1950 per incontrare Stalin e cercare appoggi per la costruzione del socialismo nella neonata Repubblica Popolare Cinese.

 

A Davos nel 2015, sei anni fa, l’allora Vice-premier russo Igor Shuvalov dichiarò che i suoi compaesani si lascerebbero morire di fame piuttosto che piegare la testa agli stranieri: “Soffriremmo infatti qualsiasi privazione”. Poi rivelò che la Russia avrebbe chiesto un sostegno urgente dalla Cina per rafforzare le proprie riserve di valuta estera, colpite da sanzioni per l’Ucraina e da un crac dei prezzi petroliferi.

 

Ora la crisi Covid ha rivelato alla Russia un nuovo e terribile mondo dove la richiesta di petrolio è evaporata e rischia con buona probabilità di non tornare più ai fasti di una volta. Nell’ultimo decennio sono stati soprattutto i cinesi ad acquistare l’export petrolifero di Mosca, un cespite vitale per l’intero modello economico russo. Bene, la scorsa estate gli scambi commerciali russi con la Cina sono passati in deficit e non ci sono segni che i cinesi vogliano raddrizzare lo sbilancio.

 

Senza una forte crescita della domanda internazionale per la sua produzione petrolifera, la popolazione russa affronterà un ulteriore crollo dello standard di vita, già non alto. Malgrado il gusto tutto russo per le privazioni vantato da Shuvalov, le difficoltà economiche del Paese sono evidenti e probabilmente spiegano meglio il fenomeno della gente in piazza a criticare la ricchezza e la corruzione attorno a Putin piuttosto che la simpatia per il dissidente Navalny, poco conosciuto in patria.

 

Qualunque sia la causa della turbolenza popolare, è evidente che al Cremlino è stato toccato un nervo scoperto. La repressione della protesta ha raggiunto livelli che perfino l’Unione Europa—meno che un leone nella conduzione della politica estera—si è sentita in dovere di condannare, seppur cautamente, facendo notare in sostanza che “così non si fa...” Per risposta, il Governo russo ha suggerito ai critici un prudente silenzio, minacciando in caso contrario ritorsioni finora indefinite.

 

Dobbiamo averne paura? È questo il punto interessante: probabilmente no. L’andamento dell’economia russa—molto fortemente sbilanciato sul petrolio—cambia le carte in tavola. Per la prima volta da tanto la Russia, orfana economica della Cina, parrebbe avere più bisogno dell’Europa di quanto l’Europa abbia di lei. Come fanno a chiudere il rubinetto del gas d’inverno quando hanno troppo bisogno dei soldi derivanti dalla vendita?