La svolta è radicale: Luigi Di Maio è diventato moderato, atlantista, europeista, garantista e nientepopodimeno che liberale! Sì, liberale, come ha dichiarato a Repubblica. Moderato, atlantista, europeista, garantista e liberale, però, è diventato non solo lui, ma l’intero Movimento 5 Stelle o almeno la parte che rimane sotto le insegne della casa. Dice il nostro: il Movimento “è cresciuto, maturato… i 5 Stelle scelgono di essere finalmente e completamente una forza moderata, liberale, attenta alle imprese e ai diritti”. E poi aggiunge: “Lo spazio per i nostalgici dell’Italexit è scomparso.
Puntiamo agli Stati Uniti d’Europa. Il Movimento è su una linea moderata, atlantista, saldamente all’interno dell’Ue”. La trasformazione del pensiero di Di Maio come persona ha scarsa importanza. Ne ha molta invece come rappresentante della politica estera dell’Italia e come leader del partito che alle elezioni politiche di 3 anni fa raccolse – sic! – il 34 per cento dei consensi. Consensi che, almeno in larga misura, si coagularono intorno a posizioni controcorrente e anti-sistema che il partito stesso esprimeva proprio sui temi che adesso Di Maio affronta col fare felpato dello stratega, quasi fossero, lui e il Movimento, l’ombelico del sistema. Lo stesso sistema che fino a poco tempo fa infangavano, disprezzavano e volevano rovesciare, come fossero i nuovi Gesù pronti a divellere i tavoli dei cambiavalute nel tempio. Certo, come disse Confucio, “chi non cambia idea è solo il saggio più elevato o lo sciocco più ignorante”. Ma qui, si ribadisce, è in discussione non già il pensiero di Luigi Di Maio, ma la coerenza intrinseca, strutturale, fondativa del partito da lui ampiamente rappresentato.
Il liberalismo, l’atlantismo o l’europeismo, il rispetto dei diritti, il moderatismo non sono pennacchi sgargianti che si indossano all’evenienza. Sono tradizioni e famiglie intellettuali, filosofiche, sociali e di lotta politica che non possono essere comprate al mercato delle pulci. Qui sta la differenza tra storia e cronaca, tra protagonisti e comparse. Il trasformismo, intendiamoci, è fenomeno antico, ma in questo periodo ha accentuato le sue stravaganze, rispecchiando nei contenuti e nei modi la liquidità dei tempi moderni. Questo fatto, tuttavia, non può diventare motivo di legittimazione e approvazione del trasformismo stesso. Semmai è la prova che la politica o una parte consistente di essa è governata sempre di più dall’assenza di progetti e pensiero. La politica, per essere considerata davvero tale, deve essere capace di arginare e guidare il fluire del tempo e degli eventi. Al contrario, se è causa della liquidità, smarrisce la sua funzione per divenire essa stessa parte dei problemi, piuttosto che strumento di loro soluzione. In altre parole, la politica, per essere guida, deve impastare la sua azione con la farina dei valori e perfino delle ideologie. Riducendosi invece a tatticismo o inseguendo soltanto gli umori del “qui e ora”, non può riuscire a tracciare il cammino dei governati, a proporre idee che portino a credere in essa e nella classe dirigente che la incarna.
Chi mette in atto strategie trasformiste come quelle annunciate da Di Maio è un doppiogiochista. Il “doppio gioco” è uno strano modo di pensare, di comportarsi e di fare (pseudo) politica, simile al magheggiare degli illusionisti. Ne parlò Antonio Gramsci in “Tutto va bene”, scritto nel 1917. Al di là dell’appartenenza e delle bandiere, cent’anni dopo, lui rimane.
ALESSANDRO GIOVANNINI